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Strategie equity: meglio le small o le big caps?

Tra i diversi stili di investimento, la dimensione aziendale è forse uno dei più seguiti in assoluto dagli investitori. La differenza tra grandi e piccole capitalizzazioni, pur non identificabile con una semplice definizione universalmente utilizzata, è infatti sempre stata molto netta.

di La redazione di Soldionline 11 mag 2007 ore 18:28








Nella presente analisi cercheremo di fare delle considerazioni sia di carattere qualitativo con le principali caratteristiche di entrambe le dimensioni, oltre che quantitativo, con una separazione numerica che a nostro avviso ha un buon riscontro pratico.
Nel mezzo vi è la cosiddetta media capitalizzazione, dimensione aziendale mai particolarmente amata dagli investitori.
Di conseguenza il mercato si è specializzato soprattutto su grandi e piccole aziende, facendo rientrare le medie a seconda dei casi in una o nell'altra categoria.
Per poi, solo recentemente, a causa della fame di prodotti di investimento da parte del mercato, riproporle come un segmento specifico.
A fronte di trends molto definiti le due diverse dimensioni aziendali in determinate fasi di mercato hanno avuto performances molto divergenti.
Conseguenza di ciò, è a nostro avviso importante approcciare gli indici azionari con una precisa idea di come sono prezzati anche da un punto di vista dimensionale, in modo da impostare il proprio portafoglio soprattutto sulla dimensione che, per multipli e prospettive, sia in grado di garantire la performance più equilibrata.


Small vs. Big: definizione quantitativa

Sapere interpretare correttamente la differenza dimensionale delle società, è a nostro avviso per un investitore una importante condizione per migliorare la propria performance.
Le dinamiche, le prospettive, il posizionamento delle due dimensioni, possono infatti essere talvolta macroscopicamente differenti, da causare in alcune fasi di mercato una ampia decorrelazione.
Interpretarne correttamente le dinamiche, potrebbe quindi permettere con una certa elasticità lo spostamento di una parte della propria componente azionaria da una dimensione all'altra, strategia che in determinate fasi di mercato potrebbe influire in modo anche rilevante sulla volatilità e sulla performance del portafoglio.

Non esiste una classificazione universalmente riconosciuta per inquadrare l'universo delle imprese quotate da un punto di vista quantitativo in una categoria anziché in un'altra.
Diverse infatti potrebbero essere le grandezze quantitative utilizzabili, inclusi fatturato e capitalizzazione. La seconda è forse più pratica per la classificazione, anche se ha il limite di non comprendere le società non quotate, che all'interno di alcuni settori potrebbero anche avere un posizionamento di primaria importanza.
Negli Stati uniti vi è una notevole bibliografia sull'argomento, con una prima distinzione tra Micro-Cap e Small- Cap.
Le prime, circa 5000 su universo di oltre 7500 società quotate negli Stati Uniti, in termini numerici sono sicuramente la categoria numericamente più importante.
Una capitalizzazione inferiore a $300 milioni viene considerata una ragionevole separazione tra small e micro, anche se taluni considerano $250 milioni come il livello massimo da utilizzare.
Le Small-Cap di conseguenza partono dal limite che si decide di utilizzare per le Micro-Cap ($250 o 300 milioni) e, tendenzialmente arrivano ad $1 miliardo.
Tali numeri valgono esclusivamente per gli Stati Uniti e non possono essere universalmente riconosciuti, perché ciò che è considerato small in un paese o addirittura in un'area geografica, potrebbe rientrare tra le grandi capitalizzazioni e viceversa altrove.
Le Mid-Cap hanno mediamente un range elevato: tra $1 e 10 miliardi di dollari; tuttavia non è una dimensione che ha mai particolarmente entusiasmato il mercato.
Lo si denota anche dal numero di prodotti specializzati, assai inferiore a quelli basati sulle altre dimensioni aziendali.
Oltre i $10 miliardi di dollari negli Stati uniti si parla di grande capitalizzazione.
Da un punto qualitativo la differenza dimensionale è per forza di cose un concetto sfumato.
Ciò che oggi è grande, un tempo è stato piccolo, così come le aziende che appartengono a settori la cui crescita è in declino, hanno mediamente subito una retrocessione dimensionale.
In fasi di mercato molto volatili poi, una società, qualora usassimo un livello di capitalizzazione fisso, potrebbero passare diverse volte in un arco temporale anche breve da una categoria all'altra.
Conseguenza di ciò, i valori di capitalizzazione individuati per inquadrare dimensionalmente le aziende, hanno a nostro avviso una utilità pratica, ma nessun valore assoluto, in quanto possono essere facilmente non rispettati a seconda del caso.


Small vs. Big: definizione qualitativa

Innanzitutto una digressione sulle medie capitalizzazioni, definite nel mondo aziendale anglosassone 'piggy in the middle', ovvero in media troppo piccole per beneficiare di economie di scala e troppo grandi per avere la flessibilità strategica tipica delle piccole.
I manager stessi non amano questa dimensione, perchè non garantisce il potere sociale ed economico di una impresa leader di settore e, non permette nemmeno di avere autonomia gestionale come nella maggiore parte dei casi permettono le società più piccole.
Per differenziare qualitativamente le due dimensioni aziendali prese in considerazione, partiamo dalle Small-Cap.
Le Small-Cap sono in media aziende dalle dimensioni fisiche limitate (fatturato, numero di impianti, numero di addetti, filiali....). Ciò sovente garantisce una grande flessibilità strategica, ed infatti attrae i manager giovani e più promettenti che possono lavorare in autonomia e mostrare il loro valore.
Le imprese giovani sono spesso focalizzate su prodotti innovativi nella industria di appartenenza e la dimensione contenuta facilita il posizionamento desiderato.
Da un punto di vista di investimento le società su cui spesso conviene puntare sono i leader di nicchie di mercato, con un brand riconosciuto, che in determinate fasi della loro storia, pur in presenza di notevoli potenzialità di crescita, hanno o hanno avuto multipli decisamente più contenuti dei loro comparables di più grandi dimensioni.
Le piccole capitalizzazioni hanno tra le caratteristiche anche una volatilità elevata, tipica di quelle attività finanziarie la cui visibilità dei flussi futuri e dell'andamento del business è meno facile da prevedere.
Di conseguenza, la liquidità che per definizione è inferiore a quella delle grandi capitalizzazioni, può determinare in alcune fasi di mercato una certa erraticità dei prezzi.
Il beta risulterà quindi in media più elevato, e da ciò dipende l'associazione tra la piccola dimensione aziendale e un maggiore rischio.
Un elemento interessante potrebbe essere la scarsa copertura da parte degli analisti, oppure una elevata deviazione standard tra le stime, cosa che non avviene mai per le grandi società quotate.
Una mancanza di copertura d'altro canto aumenta le possibilità di successo per quegli investitori/analisti più sofisticati, che sono in grado di fare emergere l'eventuale valore non ancora riconosciuto dal mercato.


Le grandi aziende al contrario sono il mercato, in quanto sovente un numero limitato di esse ha un elevato peso negli indici azionari principali, e quindi sono determinanti per l' andamento dell'indice stesso.
A livello teorico la maggiore dimensione coincide con una minore flessibilità, ma l'innovazione tecnologica degli ultimi anni ha permesso comunque un miglioramento in tale senso.
La produttività in crescita è infatti figlia soprattutto dei grandi progressi fatti a livello informatico, che permettono di svolgere determinati lavori in tempi inferiori e con un numero di persone meno elevato rispetto al passato.
Di conseguenza, gli elevati costi fissi di struttura che un tempo comprimevano i margini aziendali, sono diventati progressivamente meno rilevanti, aumentando di fatto la flessibilità delle imprese che hanno investito in tal senso.


Small vs. Big: statistiche e indicazioni operative

Gli indici che utilizziamo nell'analisi sono l'S&P 500 per le grandi capitalizzazioni e, l'S&P Small-Cap 600 Index per le piccole capitalizzazioni.


Osserviamo i rendimenti annuali, con dati che partono dal 1990.




Soprattutto nei primi anni, emerge una certa erraticità nella performance dell'indice a piccola capitalizzazione, coerentemente con un beta molto più elevato, ma anche con la possibilità di realizzare rendimenti molto superiori.



La linea blu del grafico, ovvero la volatilità dell'S&P Small-Cap, rimane nel periodo costantemente sopra la linea rosa che rappresenta l'S&P500, segno di un beta strutturalmente più alto per le piccole capitalizzazioni.



Per quanto riguarda la performance delle due asset class, possiamo notare la differenza notevole registratasi nell'arco temporale considerati nei due grafici.



Fonte:Bloomberg




Fonte:Bloomberg


Due sono quindi le considerazioni a nostro avviso importanti da fare nel decidere quale dimensione preferire nelle scelte di investimento.
Una di carattere generale, ed una legata alla situazione contingente ed al trend attualmente in atto.
La prima riguarda le statistiche più recenti e la storia delle due diverse tipologie: le Small-Cap rendono mediamente di più (considerando banalmente gli indici generali, senza quindi avventurarsi nello stock picking che potrebbe cambiare considerevolmente le performences), ma sono più rischiose. Il beta è più elevato e quindi tendono a sovraperformare nei mercati rialzisti e viceversa.
Conseguenza di ciò sono più adatte ad investitori con una elevata propensione al rischio, o più semplicemente, a quegli investitori che operano su un orizzonte temporale lungo.
Viceversa investitori istituzionali come i fondi pensione o investitori con una minore propensione al rischio, preferiranno in ambito azionario investimenti più liquidi e prevedibili come le grandi capitalizzazioni.
La seconda considerazione è invece di carattere operativo più immediato e, riguarda la strategia da tenere nella attuale fase di mercato.
Negli ultimi quattro anni, coerentemente con le statistiche passate, le piccole capitalizzazioni hanno sovraperformato. Con la differenza che anche nella fase critica 2000-2003, si sono comportate meglio. Probabilmente a causa della sottoperformance realizzata nel quinquennio precedente (fase di bull market), un'anomalia rispetto alle tendenze passate.
Qualora in futuro le due dimensioni dovessero tornare a comportarsi in modo maggiormente prevedibile, è probabile che a fronte di un eventuale storno degli indici le Small-Caps possano soffrire molto di più.
Di conseguenza, quegli investitori che ritengono elevati gli attuali livelli degli indici e che sono preoccupati per una loro tenuta, per ridurre il rischio di portafoglio dovrebbero considerevolmente ridurre la percentuale di società a piccola capitalizzazione.


conclusioni

Un elemento fondamentale per indirizzare la propria performance consiste a nostro avviso nell'inquadrare correttamente le dimensioni aziendali.
Le diverse tipologie dimensionali, micro, small, medium e big, hanno infatti un beta molto diverso e in passato hanno avuto performance anche completamente differenti sul singolo anno.
L'investitore più sofisticato cercherà perciò di associare le condizioni e la propensione al rischio del mercato ad una precisa dimensione societaria, in modo da sfruttarne il beta nel modo voluto.
In questa analisi ci concentriamo maggiormente su piccole e grandi capitalizzazioni, in particolare negli Stati Uniti dal 1990 ad oggi.
Le piccole capitalizzazioni presentano un beta molto più elevato, ma possono avere performence medie anche molto maggiori, come dimostra il periodo 2000-2007.
Riconducendo l'analisi in termini più pratici e quindi operativi, data l'attuale fase di mercato la strategia per coloro che ipotizzano un calo di mercato potrebbe essere di ridurre il peso azionario, partendo quindi soprattutto dalle piccole capitalizzazioni, che viceversa potrebbero essere considerate ancora interessanti per chi ha la visione opposta



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