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Parliamo dei Paesi Emergenti - terza parte

Continua l’approfondimento sui mercati emergenti con la terza puntata dedicata alla fase 1990-2001.

di Redazione GirlPower 4 mag 2007 ore 11:39
Negli anni '70, la situazione mutò profondamente: la crescita del prezzo delle materie prime, i molti 'petrodollari' in circolazione e la rinascita della piazza finanziaria di Londra determinarono un nuovo periodo di entusiasmo per i mercati internazionali ed emergenti; parte di queste risorse vennero investite in LATAM ed anche in altre regioni emergenti, quali il sud est asiatico. In questa fase, però, vi fu una sostanziale differenza rispetto al secolo precedente: infatti per la prima volta furono i prestiti bancari, e non più le obbligazioni, gli strumenti utilizzati per veicolare questi flussi finanziari.

I primi anni '70 furono caratterizzati da un'economia in sviluppo e dall'elevato prezzo delle materie prime, linfa vitale per la sopravvivenza degli stati emergenti, spesso esportatori di materie prime e petrolio; questi fattori generarono nei prestatori di fondi (per la maggior parte banche) una grande fiducia verso questi paesi. Purtroppo, verso la fine degli anni '70 la situazione evolse in modo imprevisto: recessione, calo nei prezzi delle materie prime ed i soliti problemi socio-politico-economici colpirono tutto il comparto emergente. Si tornò così un'altra volta sull'orlo del baratro.
Nel 1982 il Messico, per primo, si dichiarò incapace di onorare il proprio debito e, quasi immediatamente, gli altri paesi seguirono. Questa situazione sfociò in un nuovo e profondo periodo di crisi.
A complicare la situazione già critica, fu il fatto che questa volta i maggiori prestatori di capitali erano banche, principalmente americane, già invischiate in una profonda crisi settoriale per il cumularsi di fattori sfavorevoli. L'insolvenza degli stati sovrani meno forti poteva dare un colpo mortale a tutto il settore bancario statunitense. Per questo motivo, gli USA, direttamente interessati, si organizzarono per cercare di porre rimedio a questa situazione che rischiava di far collassate l'intero sistema finanziario nazionale. Nella seconda metà degli anni 80, il Segretario del Tesoro statunitense, James Baker, propose di prestare nuovi fondi ai paesi emergenti per cercare di alleviare la situazione di difficoltà nella quale si trovavano. Questo piano però non venne implementato, perché a molti esponenti politici sembrò inutile prestare nuovo denaro senza un piano più organico, destinato a risolvere, una volta per tutte, le storture delle economie sudamericane e, in generale, dei paesi emergenti. Così, venne seguita l'idea proposta dal successore di Baker, Nicholas Brady, il quale nel marzo del 1989 enunciò il suo piano di ristrutturazione volto a far uscire i paesi dal default e a riformare le loro istituzioni. Le misure di riforma facevano leva sul concetto di libero mercato e seguivano lo spirito del cosiddetto 'Washington Consensus' enunciato in quegli anni dall'economista americano, John Williamson. Nella sua versione iniziale, si trattava di un set di 10 regole che miravano a potenziare il libero mercato attraverso:
- privatizzazioni,
- rimozione delle tariffe doganali e dei controlli sugli investimenti internazionali,
- cambi e tassi di interesse stabiliti dal mercato e non fissi, ma relativamente stabili
- focalizzazione della spesa pubblica su infrastrutture, educazione e sanità
- riforma fiscale e passaggio ad una tassazione progressiva basta su aliquote marginali
- tutela della proprietà privata.
Il nome di 'Washington Consensus' deriva dal fatto che Williamson sosteneva che questo approccio dovesse essere condiviso, come poi accadde, dal governo americano, dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale, tutti basati a Washington.
Si ritenne che l'applicazione di questi principi fosse necessaria per far calare i dissesti finanziari e stabilizzare le politiche economiche, tentando di trainare questi paesi verso economie maggiormente orientate in senso liberale. La ricerca di stabilizzazione del cambio comportò in molti casi la misura, non prevista dal Consensus, della dollarizzazione, ossia la creazione di un legame molto forte tra valute emergenti ed il dollaro, al fine di evitare fenomeni di iperinflazione; in termini pratici si adottarono cambi fissi o 'peg' (ancoraggi) con limitati scostamenti da una parità stabilita, dotando le banche centrali di elevati quantitativi di valuta pregiata in modo da soddisfare la domanda /offerta di valuta.
I prestiti bancari vennero rinegoziati e convertiti in obbligazioni, i cosiddetti 'Brady Bond'; attraverso una complessa operazione di marketing finanziario, i prestiti vennero spesso abbinati a titoli del tesoro americano, in modo che i nuovi Brady Bonds avessero il solo capitale (rimborsato alla scadenza, di norma trentennale) garantito da obbligazioni statunitensi, mentre il pagamento degli interessi fosse a cura del paese emittente.
Nel 1991 il Messico, per primo, aderì al Piano Brady e fu presto seguito da tutti gli altri paesi in dissesto. I paesi ottennero riduzioni di fatto del debito per importi variabili tra il 25 ed il 33% del capitale originario, ma dovettero riconoscere gli interessi non pagati e anche una parte di quelli maturati dopo l'insolvenza. Nei primi anni 90, l'approccio Brady e del Washington Consensus sembrò ottenere i primi frutti: i paesi emergenti riuscirono a tenere sottocontrollo l'inflazione e la spesa pubblica, modificando il ruolo dello stato nell'economia ed iniziando a privatizzare alcuni settori economici, tanto che negli anni 90 le obbligazioni emergenti sono progressivamente diventate una vera e propria asset class nelle mani dei gestori di tutto il mondo.



La figura precedente mostra l'andamento del differenziale di rendimento (in basis points dove 100 b.p. =1%) al quale venivano trattati i Brady Bond rispetto ai titoli governativi statunitensi nel periodo 1991-2007. Un livello di 1000 sta a significare che, in quel dato momento, il debito in dollari dei paesi emergenti aveva in media un rendimento superiore a quello di un titolo del tesoro americano di 10 punti percentuali. Il differenziale di rendimento, oltre che la remunerazione dell'investitore, rappresenta anche la rischiosità percepita dal mercato per l'investimento in bond emergenti.
Il grafico mostra dei picchi, in corrispondenza alle maggiori situazioni di crisi del comparto occorse tra il 1991 ed oggi.
Nel 1995, la crisi scoppiata in Messico (chiamata per questo 'Tequila crisis') fu causata dalla cattiva gestione del debito statale, oltre che dai soliti problemi bancari e valutari: il paese si trovò nel 1995 con 30 miliardi di $ di prestiti in scadenza e le casse statali quasi a secco; in questo frangente intervennero in prima persona gli USA con il contributo del Fondo Monetario Internazionale e della World Bank: venne costituito un fondo, definito di 'stabilizzazione', dotato di 52 Miliardi di $, in modo tale che il Messico potesse uscire dalla crisi, a patto che continuasse a sostenere le manovre precedentemente stabilite dal Washington Consensus. La crisi si risolse nel giro di due anni.
Nel 1997 fu la volta della crisi asiatica che si concentrò in Tailandia, Malesia e Corea. Questi paesi avevano legato l'andamento della valuta domestica al dollaro statunitense. Questa misura però risultò insostenibile per la loro economia, basata principalmente sulle esportazioni, quindi i governi decisero di svalutare le loro valute; questa manovra comportò un innalzamento della volatilità dei mercati che determinò un allargamento degli spread dei paesi emergenti e rese così instabili i cambi che fu necessario, ancora una volta, l'intervento delle istituzioni di Washington.
Nel 1998, si registrò la crisi Russa, caratterizzata da alta inflazione, forte svalutazione del Rublo e mancanza di istituzioni credibili. Gli elevatissimi ed insostenibili tassi di interesse domestici portarono lo stato Russo alla cancellazione del proprio debito domestico (GKO, titoli simili ai nostri bot e caratterizzati da elevatissimi rendimenti). Questo fatto comportò un'altissima volatilità su tutti i mercati, preoccupati dalla situazione di bancarotta di uno stato dotato di un arsenale militare inesauribile. Vi furono situazioni di panico sui mercati azionari e obbligazionari di tutto il mondo; tutta questa volatilità fu aggravata dal coinvolgimento dell'Hedge Fund statunitense Long Term capital Management ('LTCM'), pesantemente esposto sul mercato Russo (in dettaglio questo fondo acquistava i 'BOT' Russi e vendeva Rubli, a copertura dei rischi, nella presunzione che una eventuale perdita sui titoli sarebbe stata bilanciata dai guadagni sulla posizione allo scoperto sui rubli; tuttavia, la copertura non funzionò nel momento del bisogno, in quanto la controparte che effettuava le coperture in divisa per conto dell' Hedge Fund fallì e la copertura svanì nel nulla). Le perdite in Russia non sarebbero state tanto gravi, se il fondo si fosse limitato ad operare in questo mercato. In verità, il fondo aveva enormi posizioni aperte su molti mercati del mondo, invariabilmente finalizzate a profittare da una diminuzione del rischio percepito a livello mondiale. In una situazione di incertezza come quella che si era generata nel 1997 (crisi asiatica) e nel 1998 ( crisi russa), questo tipo di posizione speculativa incominciò a peggiorare molto velocemente. La situazione precipitò in quanto il fondo operava con un altissimo grado di leva finanziaria, prendendo a prestito fondi pari a 30 volte l'apporto dei sottoscrittori. Già a metà settembre 1998 (il default domestico russo data di metà agosto), le banche statunitensi iniziarono ad avere qualche dubbio sulla capacità di LTCM di far fronte ai debiti. Quando si seppe che il fondo era così esposto sui mercati di tutto il mondo e che deteneva 130 miliardi di dollari soprattutto di titoli di stato di tutto il globo, il panico si impossessò dei mercati finanziari (faccio notare che la letteratura economica anglosassone parla spesso di 'panic' per identificare le grandi ondate di ribassi che caratterizzano i mercati finanziari). Se il fondo fosse fallito ed i titoli da lui posseduti fossero stati svenduti sul mercato, si sarebbero prodotti risultati devastanti, sia per le banche che non sarebbero rientrate totalmente dei prestiti concessi, sia per il mercato obbligazionario che avrebbe visto la svendita dei bond, posseduti dal fondo, concentrata in un brevissimo periodo, con un effetto esplosivo sui prezzi già penalizzati dall'incertezza del momento. Per questo motivo, il governo USA e la banca Centrale Americana vennero incontro alle banche ed insieme a loro decisero di diluire le vendite di bond in un lasso di tempo più lungo, senza creare ulteriori crisi sui mercati finanziari. Nel giro di un anno la crisi rientrò totalmente.
Il 1999 si ricorda per la crisi Brasiliana, legata principalmente alla svalutazione del Real, la quale creò grandi ripercussioni nel mondo emergente, anche se di breve durata. Nello stesso 1999, si verificò il primo default di un paese latino-americano dopo il piano Brady, quello dell'Ecuador. Quell'anno, anche il Pakistan dovette chiedere di sospendere i pagamenti sui propri debiti internazionali.
Nel 2001 fu l'Argentina a defaultare, ma questa crisi, per altro temuta per più di 18 mesi prima che si concretizzasse, non ebbe grosse ripercussioni sugli altri mercati, salvo provocare direttamente (vedremo in un'altra come come) il dissesto delle banche e dello stato uruguaini.




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