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Lehman Brothers dichiara fallimento: sacrificare uno per salvare tutti gli altri?

Commentare gli eventi dell’ultima settimana senza ripetere cose già dette è estremamente difficile, anche visti i fiumi di inchiostro versati da numerosissimi (e in molti casi più titolati) commentatori, analisti e investitori.

di Emanuela Marino 18 set 2008 ore 12:31

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A cura di Jc&Associati

E’ evidente che con il fallimento di Lehman Brothers si è creato un momento di rottura con il passato, creando una situazione i cui effetti si faranno sentire in tutto il mondo, anche se nessuno sa ancora quale sarà la loro reale portata.

Cerchiamo oggi di dare una chiave di lettura sul perché si sia arrivati a questa situazione e su quali potrebbero essere gli scenari futuri.
La FED (l’equivalente USA della Banca d’Italia) si è trovata settimana scorsa in una situazione senza precedenti. Pochi giorni dopo aver di fatto nazionalizzato due colossi del credito come Fannie Mae e Freddie Mac (si veda in proposito il nostro articolo di settimana scorsa), il ritiro della potenziale offerta di acquisto di Korean Development Bank nei confronti di Lehman ha scatenato una reazione furibonda dei mercati, che non si è concentrata solo si Lehman, ma anche su AIG (colosso assicurativo a livello mondiale), Washington Mutual (molto importante a livello domestico USA) e, in misura minore, Merrill Lynch.
A questa situazione ha invero contribuito anche la trimestrale di Lehman, che ha svalutato il proprio portafoglio di obbligazioni legate ai mutui fondiari in misura molto maggiore rispetto agli altri istituti, istituendo di fatto un termine di paragone (un “benchmark”) a ribasso per tutti i competitor e innescando quindi nuove aspettative di perdite.
 
Alla fine della settimana scorsa quindi gli istituti a “rischio” (tutti di dimensioni enormi) erano quattro, tutti alla ricerca disperata di finanziatori per decine di miliardi di USD.
A quel punto la FED aveva la necessità di fare una scelta: “salvare” tutti garantendo i potenziali acquirenti sulle perdite (tutt’ora inquantificabili) dei portafogli legati ai mutui fondiari, oppure mostrare un atteggiamento (almeno in parte) più intransigente.
Il rischio della prima scelta è stato già sottolineato da moltissimi commentatori; salvare tutti avrebbe rappresentato un precedente rischioso in termini di “moral hazard”, certificando di fatto che certe istituzioni “non possono fallire” e che quindi acquistare titoli di debito di quest’ultime è virtualmente senza rischio. Trattandosi di società private, questo tipo di ragionamento (se confermato dai fatti), rischia di riprodurre all’infinito gli eccessi finanziari che sono stati la causa di tutti i problemi attuali.
Il rischio della seconda scelta, cioè di lasciar fallire uno o più istituti di grandissime dimensioni, è quello di innescare i cosiddetti “effetti domino” mettendo in crisi altre banche esposte all’istituto fallito, che a loro volta ne mettono in crisi altre ancora e così via (questo in estrema sintesi è quello che successe nel ’29).
In bilico tra i due scenari la FED sembrava aver scelto il secondo, abbandonando Lehman al suo destino quando si è rifiutata di garantire le attività “a rischio”, richiesta che se accettata avrebbe consentito la vendita dell’istituto americano all’inglese Barclay’s.

Dopo tre salvataggi quindi (Bearn Stearns, Freddie Mac e Fannie Mae) si è deciso che gli eccessi del settore finanziario degli ultimi anni non potevano passare impuniti; il concetto del “too big to fail” (troppo grosso per fallire) doveva in qualche modo essere smentito.
Solo due giorni dopo però (cioè nella mattinata di mercoledì 17) questa nuova impostazione è stata ancora contraddetta quando la FED ha di fatto acquisto AIG, garantendo oltre 80 miliardi di USD di finanziamento e acquisendo il 79,90% della società.

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