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Battere il mercato si può, ma…

Le gestioni “attive” offrono risultati significativamente superiori agli indici di mercato nel lungo periodo. Ma trovano, specie in Italia, numerosi ostacoli legati alla scarsa cultura finanziaria, alla limitata concorrenza e a scelte strategiche infelici da parte dei principali protagonisti del risparmio gestito.

di La redazione di Soldionline 7 feb 2006 ore 15:36
Come detto la scorsa settimana, anche il Capm come altre teorie sulla gestione di portafogli è stato sottoposto a numerose critiche, tanto più che alcuni studi hanno mostrato come, curiosamente, molti gestori pur professandosi abili stimatori di profitti futuri di fatto si comportano come se non avessero alcuna capacità di previsione. Uno studio interessante venne fatto nel 1973 da Hodges e Brealey, attraverso una simulazione sull'arco di 25 anni, sotto le ipotesi che esistesse un analista che effettuasse previsioni su 40 titoli, esistesse un gestore che utilizzasse tali analisi per gestire dinamicamente il proprio portafoglio composto da tali 40 titoli, i costi di transazione (le commissioni di intermediazione) fossero pari allo 0,5%. Uno dei limiti dell'analisi, rispetto all'attuale fase storica, è che venne ipotizzato che non fosse possibile effettuare vendite allo scoperto (come invece oggi non solo gli hedge fund ma anche i fondi comuni possono fare, sia pure a determinate condizioni).

Il rendimento medio annuo di un portafoglio così costruito e gestito ha ottenuto, pur essendo le previsioni 'certamente imperfette' (nessuno di noi ha una sfera di cristallo per predire il futuro), un rendimento mediamente più elevato del rendimento medio annuo di mercato di almeno un punto percentuale a parità di grado di rischio alla fine del periodo considerato. Confermando dunque la validità delle gestioni 'attive'. Poiché lo scostamento (in senso positivo o negativo) dal rendimento medio di mercato deriva dalla decisione di investire in misura maggiore o minore rispetto al 'peso' (inteso in termini di capitalizzazione) di ciascun titolo rispetto al portafoglio di mercato sulla base delle previsioni specifiche formulate dall'analista, è evidente che se un gestore credesse nelle capacità predittive del collega (o delle proprie nel selezionare le previsioni più affidabili) potrebbe ottenere risultati nel lungo periodo (25 anni) nettamente superiori.

Tuttavia il rischio di ottenere, come ha verificato questo studio, performance inferiori a quelle medie di mercato anche per periodi elevati (fino a una decina d'anni) rende i gestori molto restii ad adottare una strategia troppo 'attiva': dopo tutto le quote di un fondo vengono pubblicate ogni giorno sui quotidiani finanziari e i clienti sono soliti perdere la pazienza dopo poche settimane o mesi di delusioni non attendendo 8 o 10 anni per cambiare gestore. E forse rendimenti elevati al rischio di altrettanto elevati rischi non sono neppure quanto i clienti chiedono, almeno non tutti. Così i gestori si 'autocensurano' e limitano il grado di scostamento dei propri investimenti rispetto al portafoglio di mercato. Ma a questo punto devono adottare un turnover più modesto, pena l'abbattimento della performance di periodo a causa degli eccessivi (ed ingiustificati) costi di transazione.

Ma in molti casi questi costi (per il fondo e dunque per gli investitori) sono una fonte di reddito per il gruppo cui appartiene la società che gestisce il fondo. Il che potrebbe spiegare, insieme agli elevati costi d'ingresso e alle commissioni di gestione a volte sproporzionate al 'costo' della gestione stessa, come mai dalle indagini di Mediobanca i risultati medi dei fondi italiani si siano rivelati inferiori a quelli dei relativi indici di mercato negli ultimi dieci anni (un periodo che, peraltro, non inficerebbe ancora la validità dello studio di Hodges e Brealey).

Tirando le somme: la gestione attiva ha un senso e produce risultati migliori che la semplice replica di indici di mercato; tuttavia perché si riescano ad ottenere simili risultati è necessario assumere un rischio specifico più elevato e dunque occorre avere, ed esserne consapevoli, buone capacità predittive (da cui l'importanza dell'analisi finanziaria e di un sistema in cui chi truffa e falsifica bilanci e informazioni al mercato viene espulso per sempre). D'altro canto occorre anche sapere che maggiore sarà la sovraperformance cercata maggiori saranno i rischi di risultati deludenti anche per periodi di tempo relativamente elevati e che per proporre alternative d'investimento (e correlati stili di gestione) con differenti profili di rischio sarà necessario adottare coerenti strategie di turnover e, in ultima analisi, fissare correttamente i costi da addossare agli investitori.

Che in Italia, ancora una volta, pagano spesso non l'incapacità degli operatori (i gestori italiani sono mediamente efficienti quanto i colleghi britannici o statunitensi) quanto la scarsa concorrenza presente nel settore e la decisione poco 'illuminata' di impostarne la distribuzione come se si trattasse di prodotti di massa. Dunque spingendone la vendita in modo capillare, con ritocchi-civetta a costi e tariffe e senza troppo insistere sulla qualità del proprio servizio (se non nel caso di piccole 'boutique' che però inevitabilmente possono 'servire' pochi selezionati clienti).

Insomma: chi aveva a disposizione (in proprio o tramite la propria clientela) grandi patrimoni da far gestire, come le banche e le assicurazioni, ha preferito sfruttarne la massa per produrre pingui utili senza troppo dover sostenere i costi derivanti dalla ricerca della qualità (ed anzi tagliando in questi anni i costi con la vendita delle 'fabbriche prodotto' a operatori internazionali, per concentrarsi sulla sola distribuzione). Chi invece aveva capito che nella gestione di portafoglio vince chi punta sulla qualità, anche se questa costa e giustifica (in questo caso sì) costi relativamente più elevati non ha (ancora?) raggiunto una consistenza patrimoniale tale da indirizzare in senso 'virtuoso' l'evoluzione del settore. E in alcuni casi ha preferito, dopo qualche anno di successo, passare la mano, staccando congrui assegni per cedere know-how, marchi e patrimoni a operatori (molto spesso esteri) desiderosi di entrare nel ricco mercato italiano.

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Luca Spoldi

Analista finanziario, Amministratore di 6 In Rete Consulting
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