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Trauma da inflazione

Almeno l’80% della ricchezza netta nel mondo sviluppato è detenuta da persone con più di cinquant’anni, soggetti che hanno sperimentato i “ruggenti anni ’70”

di Redazione Soldionline 7 dic 2012 ore 11:10
Ad van Tiggelen, senior investment specialist di ING Investment Management

Almeno l’80% della ricchezza netta nel mondo sviluppato è detenuta da persone con più di cinquant’anni, soggetti che hanno sperimentato i “ruggenti anni ’70”. In molti di loro, il ricordo di quel periodo unico, dove l’inflazione aveva tassi a doppia cifra, ha sempre alimentato il timore della perdita del potere di acquisto. In un mondo dove la politica monetaria (quantitative easing) è diventata la pratica più comune e dove si hanno rendimenti reali negativi sui titoli di stato, questo trauma sta riemergendo, più forte che mai.

Queste preoccupazioni sono giustificate?
I tassi reali negativi si sono dimostrati una buona medicina contro la crisi economica, stimolando la crescita e rendendo il debito più gestibile. Ciò nonostante, questa situazione ha indebolito uno dei principali obiettivi di molti: la preservazione del capitale reale. In questa fase, puntando su investimenti relativamente sicuri sul reddito fisso ma con bassi ritorni, molti investitori sono pressoché certi di perdere potere d’acquisto. L’alternativa, aumentando il livello di rischio, è quella di perdere il sonno. Ci troviamo quindi in un contesto scomodo, soprattutto considerando che il timore dell’inflazione è sempre molto presente.

Noi riteniamo che questa preoccupazione non sia giustificata, almeno nel medio periodo. I confronti con gli anni ’70 non
sono validi. A quei tempi, la combinazione tra il consumismo dei baby-boomer, gli shock petroliferi e il potere dei
sindacati aveva creato una spirale dei salari distruttiva. Ai nostri giorni, l’aumento dei salari nelle economie sviluppate,
che rappresentano circa il 70% dell’inflazione core, è minimo. E non ci si può aspettare che questa situazione cambi nel breve, dato che la concorrenza è globalizzata e la disoccupazione è a livelli elevati. In aggiunta, con le minori esigenze della Cina e il rapido aumento della produzione di gas negli Usa, l’impatto inflattivo delle materie prime si sta riducendo. Naturalmente vi è la possibilità che le misure di politica monetaria delle Banche centrali possano cominciare a indebolire il valore del denaro. Si tratta di un timore presente soprattutto tra i tedeschi, che hanno ancora nella loro memoria collettiva il tema dell’iperinflazione del 1923. In ogni caso, con l’economia al di sotto del proprio potenziale negli Usa e l’Europa alle prese con un periodo di crescita bassa, se non nulla, nel 2013 e nel 2014, è molto probabile che la nuova moneta creata sarà per lo più risparmiata piuttosto che spesa. Anche così, non si può comunque escludere che il quantitative easing possa in qualche modo creare inflazione nel futuro, specie se protratto per lungo tempo.

Questo sembra un rischio che i politici sono disposti ad assumersi, confortati dal fatto che le Banche centrali dispongono almeno degli strumenti per combattere l’inflazione, quando invece hanno fallito nel trovare un rimedio contro la persistente deflazione. Ma alla fine, tutto questo cosa significa per gli investitori? Per i prossimi due anni vediamo un rischio contenuto di forte rialzo dell’inflazione. Le Banche centrali manterranno bassi i tassi di interesse e gli investitori dovranno accettare il prezzo per preservare il capitale nominale in termini di perdita di potere di acquisto. Per “alleviare il dolore”, è raccomandabile una diversificazione parziale in segmenti del reddito fisso a maggior rendimento, come i mercati emergenti. Ma per chi avesse un orizzonte di lungo periodo e la capacità di sopportare la volatilità, crediamo sia molto sensata un’ulteriore diversificazione in asset che danno una ragionevole protezione contro l’inflazione, come il real estate e l’azionario (con un focus sulle aziende manifatturiere). E questo non solo a causa dei bassi rendimenti che si trovano altrove, ma anche per l’imprevedibilità del risultato finale dei quantitative easing.
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