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Riflessioni sulla Pex

Nel regime di esenzione da partecipazione, i dividendi e le plusvalenze realizzati dalle società di capitali sono esenti da imposte. La giustificazione è che riflettono utili già tassati in capo alla società partecipata. Ma le plusvalenze possono avere altre origini, ed essere anche il frutto di attività speculative. I rimedi proposti appaiono però finalizzati ad aumentare il gettito. Dovremmo chiederci se Pex e simili non debbano considerarsi sleali forme di concorrenza fiscale fra paesi Ue

di La redazione di Soldionline 3 nov 2005 ore 10:10
di Tommaso Di Tanno

Nel regime di esenzione da partecipazione (Pex) vigente in Italia dal 2004, i dividendi e le plusvalenze realizzati dalle società di capitali sono esenti da imposte. La giustificazione è che riflettono utili (distribuiti e non) già tassati in capo alla società partecipata. Ma le plusvalenze possono avere altre origini, ed essere anche il frutto di attività speculative.
Il tema è salito agli onori della cronaca con riferimento alle plusvalenze realizzate dai cosiddetti immobiliaristi, per le quali l'esenzione è ritenuta difficilmente giustificabile. I rimedi proposti appaiono però più finalizzati ad aumentare il gettito che ad affrontare razionalmente il problema.

La Pex 1: esenzione dei dividendi infrasocietari

La Pex è stata introdotta per sostituire il credito d'imposta sui dividendi (che evita la doppia tassazione dello stesso profitto). Se applicato fra imprese, il credito d'imposta creava infatti discriminazioni per i non residenti non compatibili col quadro Unione europea. La Pex non presenta, invece, controindicazioni di sorta visto che dà luogo alla pura e semplice esenzione del dividendo, se ricevuto da imprese, indipendentemente da altre caratteristiche del socio.
La circostanza, poi, che l'esenzione non sia integrale, ma limitata al solo 95 per cento del dividendo ricevuto, è frutto di mera semplificazione nei rapporti fra contribuente e fisco. Con l'esenzione totale, infatti, il contribuente non avrebbe potuto dedurre i costi di gestione della partecipazione (ad esempio, le spese di viaggio sostenute dai rappresentanti della società socia per la partecipazione alle assemblee della società partecipata). Il fisco, d'altro canto, avrebbe dovuto accertare quali spese del socio afferivano alla gestione della partecipazione in questione. E ciò non solo nell'anno di percezione del dividendo, ma in un qualsiasi momento di possesso della partecipazione incriminata. La forfettizzazione di tali spese nel 5 per cento del dividendo, pur opinabile, risolve, quindi, il problema.
Sennonché l'esenzione garantita al dividendo (che chiamerò Pex 1) avrebbe potuto facilmente risultare, nei fatti, insufficiente ove la società che consegue un profitto non distribuisca lo stesso in toto. Avrebbero potuto, cioè, residuare riserve di utili che mai avrebbero potuto godere della Pex, perché mai distribuite (vedi la riserva legale) e che avrebbero inevitabilmente concorso ad aumentare il valore delle azioni della società che le detiene. Ne sarebbe derivata la tassazione di un importo corrispondente a dette riserve in caso di cessione delle azioni in questione per un prezzo che (com'è naturale) ne tenesse conto. Per ovviare all'inconveniente si è ritenuto, dunque, di estendere anche alle plusvalenze derivanti da cessione di partecipazioni il meccanismo dell'esenzione. Questa seconda esenzione (che chiamerò Pex 2), però, è stata accordata alle plusvalenze tout court, indipendentemente dalla provenienza delle stesse. Indipendentemente, cioè, dal loro derivare da riserve di utili non distribuiti, oppure da avviamento, oppure ancora da momentanei apprezzamenti borsistici, o da quant'altro.

La Pex 2: esenzione delle plusvalenze

La Pex 2 pare, quindi, un po' troppo ampia rispetto all'affermato puro meccanismo di coordinamento con la Pex 1, e per evitare la doppia imposizione degli utili societari. Non a caso, la Pex 2 è vista con un certo sospetto da tutti i sistemi che l'hanno introdotta, tant'è che ciascuno di essi ha aggiunto qualche limitazione. Si va dalla durata del possesso delle partecipazioni variabile fra i dodici e i ventiquattro mesi, al quantitativo minimo di partecipazioni possedute variabile, perlopiù, fra il 5 e il 25 per cento. Taluni discriminano, infine, in funzione dei redditi conseguiti dalle società le cui azioni potrebbero essere oggetto di Pex 2 (escluse se conseguono prevalentemente passive income).
Anche la Pex 2 nostrana si muove nello stesso solco e porta, com'è ovvio, limitazioni più aderenti alla nostra realtà (e mentalità). Sono escluse le partecipazioni in società immobiliari (ma non se sono quotate); quelle in società domiciliate in paradisi fiscali; quelle detenute per attività di trading e iscritte in bilancio come tali; quelle possedute da meno di dodici mesi (elevati a diciotto col decreto legge 203/2005 in corso di conversione). Nessuna limitazione opera, invece, per l'impresa che realizza la plusvalenza da esentare (ecco perché Ricucci, via Magiste, ha potuto goderne sulle azioni Bnl).
Sostengono taluni che la Pex 2 allarga la base imponibile visto che a fronte dell'intassabilità delle plusvalenze sta l'indeducibilità delle minusvalenze. Questo argomento, tuttavia, è davvero privo di pregio. Le minusvalenze, infatti, possono derivare da svalutazioni o da trasferimenti con realizzo di perdite. Nel primo caso, l'indeducibilità delle svalutazioni trova corrispondenza nell'intassabilità delle plusvalenze (da rivalutazione) iscritte in bilancio. Nulla a che spartire, quindi, neppure concettualmente, con la Pex 2. Nel secondo caso, invece, è sensato collegare l'intassabilità delle plusvalenze realizzate con le minusvalenze altrettanto realizzate. Non vedo, tuttavia, perché la Pex 2 (cioè il binomio intassabilità/indeducibilità) dovrebbe risultare in un ampliamento della base imponibile rispetto al suo opposto (tassabilità/deducibilità).

Ma la dimensione dell'esenzione è, oggi, oggetto di discussione. All'originario 100 per cento del decreto Ires, il Dl 203/2005 ha sostituito il 95 per cento. Emendamenti già approvati lo riducono al 91 per cento nel 2006 e all'84 per cento nel 2007. Queste modifiche normative, a fronte del mantenimento della totale indeducibilità delle minusvalenze, si configurano come meri strumenti, ancorché illogici, di ampliamento della base imponibile. Inoltre, fanno emergere la radicale estraneità della Pex 2 al meccanismo di tassazione del dividendo e pongono (correttamente) il quesito della sua funzionalità rispetto agli obiettivi di politica economica che con essa si vogliono perseguire. Proseguono ancora, i sostenitori della Pex 2 che, anche in caso di sua abrogazione, le imprese italiane potrebbero conseguire risultati analoghi facendo acquisire e gestire le partecipazioni in questione da proprie controllate domiciliate in altri paesi Unione europea dove vige un regime analogo alla Pex 2 (vedi Olanda o Lussemburgo). Queste realizzerebbero plusvalenze, anche su azioni di società italiane, non tassabili in Italia in virtù del relativo trattato contro le doppie imposizioni; godrebbero della locale Pex 2 e potrebbero, poi, rimpatriare il relativo profitto col regime cosiddetto "madre-figlia" con una tassazione limitata al 5 per cento del dividendo.
In questo scenario l'Italia perderebbe due volte: una prima vedendo sparire le holding italiane verso paesi Unione europea più compiacenti; una seconda perdendo quel tanto di base imponibile che si creerebbe, invece, con l'adozione delle (irrazionali) misure previste nel Dl 203. Quest'ultima ricostruzione è quella, purtroppo, più realistica e pericolosa. C'è solo da domandarsi se misure analoghe alla Pex 2 non debbano considerarsi sleali forme di concorrenza fiscale fra paesi Unione europea e invocarne la soppressione (o almeno una più restrittiva applicazione) da parte dei competenti organi comunitari.


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