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"Gestori per caso": a volte, spesso...

...quando rischiamo di non accorgerci che la casualità domina le performance dei gestori...

di La redazione di Soldionline 29 ago 2006 ore 12:33
Alcune analisi, mie o di altri, si sono accavallate negli ultimi giorni. Esse hanno riguardato

(1) la fine della quarta edizione della competizione 'Caccia al Toro',
(2) il completamento di un'analisi sui fondi comuni e le sicav disponibili ai risparmiatori italiani e
(3) un articolo scritto dal responsabile delle strategie d'investimento di Dresdner Kleinwort.

Avrei potuto dedicare un commento specifico a ciascuno di questi argomenti, ma ho preferito trattarli congiuntamente, per mettere in evidenza il filo conduttore che li lega e talune conclusioni cui conducono. Sono conclusioni che la comunità finanziaria probabilmente non è ancora psicologicamente pronta ad accettare compiutamente.


1) La casualità ed il momentum battono i gestori

La quarta edizione della competizione 'Caccia al Toro' organizzata da Il Sole 24 ore ha sostanzialmente confermato i risultati delle tre edizioni precedenti. Il commento alle precedenti edizioni, inclusivo della descrizione del regolamento della competizione, potete trovarlo cliccando qui , e scaricando un mio pamphlet intitolato emblematicamente Gli investimenti azionari ed il caso.

Per sintetizzare il regolamento della competizione, dieci gestori professionisti si sfidano per cinquanta settimane in gruppi di due, selezionando cinque azioni europee ed aggiornando la loro selezione ogni cinque settimane, si confrontano con il benchmark europeo Eurostoxx e con quello italiano S&P/Mib 40, con un portafoglio Montecarlo, cioè di cinque azioni estratte casualmente dal benchmark europeo, e con due portafogli Euro Runners ed Italian Runners, composti rispettivamente delle cinque azioni europee e cinque azioni italiane (appartenenti ai sopra-citati benchmark) che, nei 12 mesi precedenti, avevano registrato la maggiore rivalutazione percetuale.

In questa quarta edizione non solo i gestori non sono riusciti a battere il benchmark Eurostoxx, impresa che era loro riuscita nelle tre precedenti edizioni, ma hanno ancora mediamente performato peggio dei portafogli Euro Runners (per la quarta volta consecutiva in quattro edizioni) e dei portafogli casuali.

Il dettaglio delle performance è stato il seguente:


Se si considera il differenziale di rendimento rispetto all'indice Eurostoxx come misura di valore aggiunto generato dalle singole gestioni, il lettore può agevolmente calcolare come il gruppo dei partecipanti si è sgranato lungo un'ipotetica classifica generale: prima Carige, seconda Ifigest, terza Vegagest, ecc..

I risultati di sintesi di questa quarta edizione sono stati i seguenti:


Si consideri che la competizione non computa costi di negoziazione figurativi, il che avvantaggia i gestori che, sia pur in diversa misura, fanno ruotare i portafogli ogni cinque settimane, mentre i portafogli casuali e di momentum rimangono invariati lungo tutta la competizione.

I risultati cumulativi/composti delle quattro edizioni sono stati i seguenti:


Questa è la tabella centrale per i ragionamenti che seguono. Quattro anni di competizione tra gestori professionali, totalmente liberi da vincoli di rotazione del portafoglio, consentono di esporre alcune considerazioni che vanno ben oltre l'apparente folclore della competizione stessa:

a) impostando portafogli concentrati di sole 5 azioni, i gestori riescono mediamente battere il benchmark Eurostoxx di 5,3 punti percentuali all'anno; poiché nella realtà questo non avviene a livello aggregato di industria del risparmio gestito, ciò significa che i costi gravanti sui fondi e la diversificazione di portafoglio (più che) annullano le (presunte) abilità di stock picking dei gestori;
b) tuttavia, in 4 competizioni su 4, anche i portafogli casuali battono, sia pure in misura leggermente minore, il benchmark Eurostoxx (mediamente del 3,3% all'anno) e questo, ovviamente, svilisce il significato che pure i gestori riescano a batterlo: lo battono i gestori, ma lo battono - per poco meno - anche i portafogli-idioti-Montecarlo, quindi: è vera gloria? La domanda cruciale che va posta è: come è possibile che questo fenomeno si riproponga in maniera tanto regolare, cioè che portafogli azionari estratti in maniera casuale (ovverosia idiota) abbiano battuto regolarmente (ogni anno) l'indice azionario da cui sono estratti? È solo frutto della pura casualità, il che consentirebbe di archiviare il fenomeno con un'alzata di spalle, o c'è sotto un fenomeno che sfugge, nella sua sottigliezza, alla maggior parte degli osservatori? Se mi avete seguito nei mesi scorsi, in particolare se avete letto l'articolo 'Quanto vale l'opinione degli analisti finanziari?' (Soldionline del 10.3.2006), avete scoperto l'esistenza dell'effetto small cap (che io ho ribattezzato 'effetto smaller cap', in quanto investe anche le blue chip) il quale normalmente consente di battere un indice di borsa ponderato semplicemente equipesando i titoli che lo compongono. I portafogli Montecarlo sono sì idioti, ma non al punto da non sfruttare questo effetto; d'altra parte, anche i gestori sfruttano lo stesso effetto 'smaller cap' nella gara e, quindi, è difficile distinguere quanto della loro overperformance sul benchmark sia dovuta ad effettiva abilità di stock picking e quanto a semplice sfruttamento dell'effetto smaller cap. Tuttavia, è evidente che l'effetto smaller cap ed i risultati dei portafogli Montecarlo vs. benchmark ridimensionano la significatività dell'overperformance dei gestori vs. il medesimo benchmark; e giustificano l'interrogativo se i risultati dei gestori - specie al netto delle commissioni - siano sostanzialmente diversi da quelli dei portafogli casuali ...
c) infatti, per quanto facciano ruotare dinamicamente i portafogli e per quanto questi siano concentrati, nel lungo termine i gestori discrezionali a livello aggregato non riescono a fare molto meglio dei portafogli casuali (due punti percentuali all'anno), e ciò al lordo delle commissioni di gestione e negoziazione: al netto di queste i gestori sarebbero mediamente allineati o 'sotto' i portafogli casuali;
d) i portafogli di momentum Euro Runners ed Italian Runners eguagliano o battono regolarmente i gestori, e ciò in maniera tanto più manifesta e costante quanto più l'universo di estrazione dei titoli è maggiormente ampio e diversificato, com'è quello europeo rispetto a quello italiano.

Un gestore lamentava il fatto che le regole della competizione non consentono di prendere profitto all'interno di ogni ciclo di cinque settimane e che questo handicap non consentirebbe di sfruttare pienamente le abilità dei gestori. Dove sia finito il 'lungo termine' (così spesso richiamato nei prospetti d'investimento dei fondi) è un mistero, se un investimento azionario deve avere un ciclo inferiore alle cinque settimane per essere pienamente profittevole ... Ad ogni buon conto, i portafogli di momentum Euro Runners non vendono mai durante la gara, eppure surclassano regolarmente i gestori ...

La competizione organizzata da Il Sole 24 ore è la riproposizione del 'Wall Street Dartboard Contest' (la 'competizione delle freccette') organizzata alla fine degli anni '80 dal Wall Street Journal, i cui risultati non furono sostanzialmente diversi da quelli della competizione italiana e nella quale i gestori professionali si scontravano con i redattori del quotidiano che sceglievano i titoli in maniera casuale.

Questi risultati giustificano di porre un interrogativo sulla capacità del giudizio discrezionale del 'gestore medio' di battere strategie banali di portafoglio. Tali risultati, ripetuti nel tempo, confortano la tesi che la complessità dei mercati finanziari è tale che il giudizio discrezionale del gestore medio ne è sopraffatto, facendo regredire le performance aggregate del settore su livelli di chiara modestia, approssimati a quelli casuali.

Sia chiaro che questo non è un giudizio moralistico sulla 'capacità professionale' del gestore medio, bensì un'osservazione inerente quei fattori strutturali del mercato (la sua vastità, complessità, caoticità di breve termine) che 'mediamente' impediscono agli approcci discrezionali quali-quantitativi di generare valore aggiunto per i sottoscrittori dei fondi comuni.

Se le performance fossero in cima alle preoccupazioni delle società di gestione, questa osservazione, in teoria, dovrebbe stimolare il ripensamento delle strategie di investimento dei fondi comuni e, conseguentemente, della stessa organizzazione delle Sgr. In Perché liberalizzare la gestione del risparmio (link http://urlin.it/395) e sulle colonne di Soldionline ho dedicato numerose riflessioni a questo tema, anche prendendo spunto proprio da 'Caccia al Toro'. I risultati di 'Caccia al Toro', giudicabili 'normali' o 'sorprendenti' a secondo se si intuisca o meno di come effettivamente 'giri il fumo' nel settore dell'intermediazione finanziaria, rappresentano un argomentazione utile per evidenziare problema della difficile 'gestione della complessità' nei mercati finanziari. Gli insegnamenti della competizione probabilmente vanno ben oltre gli intendimenti dei suoi organizzatori.

Tuttavia, questa riflessione sembra ben lungi dall'essere anche solo avviata nell'industria del risparmio gestito, per ragioni che saranno illustrate al punto 3.


2) Alfa positivo di portafoglio, illustre sconosciuto

Quanto sopra dedotto non vale evidentemente solo per i fondi italiani, essendo un fenomeno diffuso a livello mondiale nel settore dell'intermediazione finanziaria.

E, se la gestione simulata per gioco offre le (apparenti) sorprese che ho segnalato, la gestione reale offre uno scenario non meno irriverente.

Recentemente ho condotto uno screening dell'universo dei fondi azionari pan-continentali disponibili ai risparmiatori italiani e li ho scremati per indicatore Alfa positivo generato ad 1 ed a 3 anni a fine Luglio 2006. Infatti, per ragioni che in parte ho già illustrato nell'articolo 'La lezione di Madame Lombard Odier sull'Information Ratio' (Soldionline del 12.6.2006), considero l'indicatore Alfa praticamente molto più utile dell'Information Ratio ai fini della selezione dei fondi. Le categorie di fondi che ho preso in considerazione sono state: Large Cap USA, Small Cap USA, Large Cap Europa, Small Cap Europa, Large Cap Giappone, Small Cap Giappone, Asia ex Japan, Emerging Markets/America Latina, Azionari Internazionali. Ho escluso i country fund, che avrebbero determinato una distorsione nelle statistiche, i fondi settoriali e, ovviamente, i fondi flessibili.

Su circa 230 fondi complessivamente estratti da un universo di alcune centinaia di fondi azionari, sono stati solo 20 i fondi gestiti dalle Sgr italiane che hanno rispettato la condizione di un Alfa positivo (anche quando insignificante, cioè non nell'ordine dello 0,00...%) generato sia ad 1, sia a 3 anni. Gli altri fondi che soddisfacevano alla condizione del 'doppio Alfa positivo' erano gestiti da case estere, con alcuni nomi ricorrenti più frequentemente di altri. Se si considera che l'industria italiana del risparmio gestito è piccola rispetto a quella anglosassone, svizzera, ecc., il risultato percentuale (20/230) non è, di per se stesso, affatto disprezzabile. È il dato assoluto, decisamente minoritario, che lascia perplessi, così come i nomi degli 'illustri assenti' in questo elenco: dei 20 fondi italiani che hanno dimostrato permanenza di Alfa positivo nel tempo, la gran parte (con isolate eccezioni) è gestita da istituzioni finanziarie minori o, addirittura, operatori di nicchia e non dalle grandi banche che dominano commercialmente il mercato.

In altri termini, poiché l'Alfa sintetizza il rendimento di un fondo differenziale rispetto a quello derivante dalla sua pura esposizione al mercato, la stragrande maggioranza dei fondi genera Alfa negativi e, quindi, rendimenti insufficienti rispetto ai rischi assunti. Inoltre, i pochi fondi con Alfa positivi ripetuti si trovano più frequentemente presso piccole che presso grandi istituzioni finanziarie; il che è (solo apparentemente) strano, in quanto se, in teoria, le grandi istituzioni finanziarie avrebbero le risorse per assumere ed incentivare i migliori talenti (un po' come i grandi club di calcio che possono comprare i giocatori migliori), al contempo, hanno molta meno necessità di esaltare le performance per collocare i loro prodotti perché la rete di sportelli supplisce alla qualità dei prodotti.

Da questo fenomeno, proprio quando si profila all'orizzonte una fusione bancaria che genererà una banca monstre ma con prodotti del risparmio gestito di qualità modesta, deriva un interesse socio-politico alla preservazione di un'elevata concorrenza nel comparto del risparmio gestito.

(A proposito: il nuovo Amministratore Delegato della nascente banca monstre cederà anche l'asset management che verrà conferito dal San Paolo Imi? Se la motivazione ufficiale con cui Nextra fu ceduta al CA era anche quella vera [e non quella di accondiscendere il principale azionista francese di Banca Intesa], logica e coerenza vorrebbero che anche l'asset management conferito dal San Paolo sia ceduto, in quanto anch'esso troppo piccolo per competere sul mercato europeo. Tuttavia, permettetemi di dubitare che, questa volta, finirà così. Resta la perplessità per un'opportunità di integrazione persa per un probabile eccesso di fretta: dalla fusione dell'asset management delle due banche si sarebbero ricavate le tanto agognate economie di scala ...Infine, sarà interessante capire come - con il conferimento alla nuova banca della fabbrica prodotti del San Paolo Imi - il CA continuerà ad assicurarsi la distribuzione privilegiata dei suoi prodotti sulla rete Banca Intesa, negoziata contestualmente all'acquisizione di Nextra: convivranno prodotti concorrenti?).

Questa statistica sugli Alfa dei fondi contribuisce, inoltre, a dare una spallata finale ai propagandati vantaggi delle gpf monomarca, le quali sono specialmente offerte dalle grandi banche: infatti, i fondi impiegati nelle gpf monomarca normalmente presentano Alfa negativi ed un singolo fondo azionario internazionale con Alfa positivo è normalmente da preferire ad una gpf monomarca con tale handicap di partenza, che tenta di scimmiottare la strategia globale del fondo azionario internazionale, ed a costi nettamente superiori.

Questa statistica deve indurre ad interrogarci - da un'angolazione ancora diversa dalla precedente - sul modesto, nullo o persino negativo (rispetto agli Etf) valore aggiunto effettivamente erogato dal settore del risparmio gestito a favore dei sottoscrittori e sui modi per contenere questo problema.


3) Perché la gestione quantitativa non è di moda

Ho sostenuto a più riprese, confortato dall'evidenza empirica, che un utilizzo più intensivo di tecniche quantitativo-sistematiche può contribuire a lenire questo problema di carenza/assenza d valore aggiunto. Tuttavia, le tecniche quantitative sono ancora considerate con sospetto.

James Montier, direttore delle Strategie d'Investimento di Dresdner Kleinwort, ha affrontato in maniera organica questo tema del ripudio delle tecniche quantitative nell'industria del risparmio gestito in un suo recente articolo intitolato 'Ode ai Quant', reperibile cliccando qui.

L'articolo descrive alcuni casi reali, in settori totalmente estranei alla finanza, in cui semplici modelli statistici hanno offerto risultati migliori dei cosiddetti esperti. L'obiettivo dell'autore è dimostrare come l'approccio discrezionale alla presa di decisione, specie in contesti decisionali complessi (ove entrano in gioco molte variabili intercorrelate) possa essere battuto da un approccio quantitativo-sistematico fondato su semplici modelli statistici.

Mentre vi rinvio alla godibile lettura di questo articolo, ne ho estratto le conclusioni riferite più specificamente al mondo della finanza:

'Dunque, perché non quant?
La risposta più probabile è l'eccesso di fiducia. Tutti noi pensiamo di saperne di più di semplici modelli. La chiave delle performance dei modelli quantitativi è che contengono un tasso di errore noto, mentre i nostri tassi di errore sono sconosciuti ...

Inoltre c'è abbondanza di evidenza che suggerisce che noi tendiamo a sovrapesare la nostra opinione e le nostre esperienze contro l'evidenza statistica ...

Grove e Meehl suggeriscono molte possibili ragioni per ignorare l'evidenza presentata in questo scritto, due in particolare hanno rilevanza nel nostro contesto.

La prima è la paura della disoccupazione tecnologica. Se, ad esempio, 18 su 20 analisti e gestori potessero essere rimpiazzati da un computer, questo risultato non sarebbe probabilmente benvenuto nel settore dell'intermediazione finanziaria.

Secondariamente, il settore ha al suo interno un'ampia dose d'inerzia. È piuttosto inconcepibile per una grande casa di investimento cambiare drasticamente le procedure ed affermare che stanno buttando nel cestino la maggior parte delle procedure che hanno usato negli ultimi 20 anni, allo scopo di implementare un modello quantitativo al loro posto.

Un'altra considerazione può risiedere nella facilitazione alla vendita [dei prodotti finanziari, ndt]. Troviamo facile capire l'idea di analisti che cercano il valore e di gestori che lo estraggono da opportunità nascoste. Invece, vendere un modello quantitativo sarebbe assai più difficile. Il termine 'black box' sarebbe associato ai significati peggiori. I consulenti d'investimento potrebbero chiedersi perché mai stanno investendo nel tuo fondo, se 'tutto' ciò che fai si limita ad accendere il computer, far girare il modello ed andarsene a spasso.

È per ragioni come queste che l'investimento quantitativo resterà probabilmente un'attività marginale, non importa quanto possa essere di successo.'

La riflessione di Montier è, dal mio punto di vista, ineccepibile anche se qualcuno dovrà pur progettare i 'semplici' modelli, spenderci del tempo, farne la manutenzione (invece che andare a spasso) e chi li progetta e li aggiorna è il candidato naturale per usarli, se non altro perché, conoscendoli intimamente, ha la fiducia necessaria per utilizzarli.

Per le ragioni esposte da Montier, credo che i modelli quantitativi non possano essere calati dall'alto ed imposti ai gestori. Il cambiamento organizzativo delle Sgr verso un utilizzo più intensivo delle tecniche quantitative e meno intensivo della 'quantità del fattore lavoro' passa necessariamente attraverso lo sviluppo dei modelli da parte degli stessi gestori.




Paolo Sassetti
Analista finanziario indipendente, socio Aiaf



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