Contro la deriva dei derivati
L’on. Giorgio La Malfa, Presidente della Commissione Finanze e Tesoro della Camera, ha avviato una importante indagine conoscitiva sulla diffusione in Italia degli strumenti derivati. Il quadro che emerge indica con chiarezza che il problema della trasparenza dei prodotti finanziari non è limitato alla gestione dei risparmio privato.
di La redazione di Soldionline 5 ott 2005 ore 08:50
In effetti, i dati emersi dalle prime audizioni sono di estremo interesse. Di particolare interesse è stata la relazione del Funzionario Generale della Consob, dott. Antonio Rosati (scarica il PDF). Di tale interesse che sorge spontaneo l'interrogativo sul perché statistiche tanto significative e rilevanti debbano venire alla luce solo su sollecitazione del mondo politico più responsabile.
Ad ogni modo, tra i dati più interessanti della relazione del dott. Rosati va citato che
dall'analisi condotta emerge in primo luogo che l'operatività svolta dai 10 gruppi bancari esaminati avrebbe interessato circa 50.000 clienti non istituzionali (imprese non finanziarie, enti pubblici e clientela retail), cui sono riconducibili circa 78.000 contratti. Il controvalore nozionale complessivo delle posizioni in essere al 30 giungo 2004 è pari a circa 146 miliardi di euro.
I clienti con una valorizzazione negativa della posizione (cosiddetto mark to market negativo) sono oltre l'80% ed al 30 giugno 2004 il valore di mercato, vale a dire il debito totale dei clienti nei confronti delle banche, in ipotesi di chiusura immediata di tutte le posizioni, è pari ad oltre 4 miliardi di euro.
La relazione del dott. Rosati si affretta a precisare che il fatto che esista un passivo potenziale di circa 4 miliardi di euro nei confronti delle banche non è di per se significativo:
il fatto che oggi tali contratti abbiano un valore di mercato negativo può non rappresentare di per sé un'evidenza di una situazione patologica, ma può indicare semplicemente il fatto che è stato coperto un rischio che non si è realizzato.
Il ragionamento è, di per se stesso, asettico ed ineccepibile. Ma solo fintanto che non si vanno ad analizzare a campione alcuni dei contratti siglati dalle imprese private.
L'altra faccia del problema
Da diverse regioni si leva un 'grido di dolore' che proviene da molte piccole e medie imprese. I contratti sui derivati da esse sottoscritte in molti casi non avevano sempre funzione di copertura, bensì di speculazione. E, se le società apparivano consapevoli (forse, e non sempre) della natura speculativa di tali contratti, più raramente erano anche consapevoli della dimensione dei rischi assunti, ad onta dell'autocertificazione di essere 'soggetti qualificati' a comprendere i rischi assunti. Sono al corrente di iniziative legali condotte contro istituti bancari per aver promosso contratti sui derivati di tipo speculativo in cui le probabilità di perdere sono state - ma solo a posteriori - riconosciute come nettamente predominanti, grazie ad una 'scomposizione' dei prodotti incriminati per identificarne il payoff ed il pricing corretto.
Questo nuovo fenomeno di finanza strutturata diffusasi a grande velocità presso le imprese italiane (e gli stessi enti locali) nasce all'inizio degli anni 2000 da un'originaria e concreta esigenza di copertura dai rischi di interesse e di cambio: in quel periodo gli imprenditori erano preoccupati - e non senza apparente ragione - di un rialzo dei tassi di interesse sui finanziamenti in essere o da accendere e, in merito ai cambi, di un'ulteriore svalutazione dell'euro (soprattutto nei confronti del dollaro). Com'è noto, si sono verificati i fenomeni opposti: si è assistito ad una riduzione ulteriore dei tassi d'interesse e ad una rivalutazione dell'euro che - come rileva la stessa Consob - hanno comportato perdite per le imprese che avevano avviato le operazioni di copertura. Ebbene, l'analisi di alcuni di questi contratti rivela che, anche qualora si fossero verificate le originarie aspettative, ossia i tassi d'interesse si fossero alzati o l'euro si fosse ulteriormente svalutato, le aziende avrebbero beneficiato di tale situazione in misura comunque modesta.
In altri termini, molti contratti sui derivati si sono rivelati scommesse già perse in partenza e da questa consapevolezza a posteriori oggi derivano svariati contenziosi..
Ma solo le aziende che non sono eccessivamente dipendenti dalla banca con cui hanno sottoscritto il contratto riescono ad uscire allo scoperto ed ad assumere queste iniziative. Molte altre preferiscono tenersi le perdite piuttosto che rischiare di vedersi chiudere i rubinetti del credito.
Quindi, il fatto che la Consob rilevi come la maggior parte dei contratti sui derivati abbia funzione di copertura e non di speculazione non dice purtroppo nulla sul pricing dei derivati negoziati e sull'effettiva efficacia di tale copertura.
Come sono tipicamente confezionati questi prodotti per avere appeal nei confronti degli imprenditori? Nella fase iniziale, per essere attrattivi, fanno spesso ottenere all'impresa dei ricavi immediati (upfront payment), seppur modesti, ma successivamente spesso (e normalmente) si traducono in perdite. Talvolta, è la banca che propone la chiusura anticipata e la sottoscrizione di un nuovo prodotto posticipando e, di fatto, aggravando ulteriormente, il problema. Il risultato è che l'imprenditore subisce perdite ancora più consistenti.
Come si è detto, la strutturazione di alcuni di questi contratti ha addirittura natura speculativa e non di copertura è chiaramente estranea alle esigenze operative delle aziende come in casi che mi è capitato di visionare di scommesse sulla pendenza della curva dei tassi d'interesse o sull'andamento dell'indice Mib.
Il bilancio di una banca leader
Se esaminiamo il bilancio 2003 di una delle 10 banche del campione esaminato da Consob per la sua indagine conoscitiva, constatiamo che circa il 50% dei margini rivenienti da servizi alle sole imprese (credito commerciale, sconto di portafoglio, finanziamenti import-export, gestione d'incassi e pagamenti, finanziamenti speciali, leasing, finanza straordinaria, derivati, ecc.) proviene dalla sola vendita di prodotti derivati alle imprese. Questo è di certo un caso limite in Italia ma che trasmette il senso di come in pochi anni sia cambiato il 'mestiere di banca' per quegli istituti che si sono dimostrati (diciamo) più 'innovativi' ed aggressivi commercialmente.
Tuttavia esiste un serio problema che è l'altra faccia della medaglia di una redditività fortemente condizionata dalla vendita dei derivati. Se, sui 78.000 contratti sui derivati citati dalla Consob per le prime 10 banche campionate, una quota (diciamo) 'non marginale' di questi fosse di natura speculativa e non di copertura o di 'copertura imperfetta' a causa del pricing scorretto (come francamente temo che sia), si porrebbe un dilemma di non poco conto per il sistema finanziario: preservare i profitti bancari con il continuo collocamento di prodotti speculativi, inutili e/o prezzati in maniera scorretta, ecc., o frenare questo fenomeno fintanto che siamo ancora in tempo sia pur a scapito di qualche punto di redditività bancaria?
Speriamo proprio che la 'pax bancaria' non significhi mano libera per scorrerie corsare sul mercato dei derivati.
Paolo Sassetti
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