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Se gli algoritmi ricevono le istruzioni sbagliate

Si presume che un computer capace di elaborare molto velocemente milioni di dati da fonti più diverse possa decidere meglio rispetto ad una mente umana. Ma è davvero così?

di Valter Buffo 30 set 2020 ore 09:17

Commento di recce-d.com

 

algoritmiOrmai da mesi, Recce’d segnala ai lettori la assoluta necessità di affrontare i prossimi mesi ed anni liberandosi di vecchie zavorre: è necessario ragionare senza farsi stringere da vecchi schemi mentali, che con grande evidenza non sono più adatti a riflettere la realtà dei mercati finanziari.

Un esempio classico, e significativo, sono i modelli cosiddetti “quantitativi” o “quant”, per l'allocazione di portafoglio, modelli che vengono utilizzati per generare gli ordini di “ribilanciamento” da un certo numero di fondi comuni (hedge e anche tradizionali) oltre che da tutti i robot-advisors del mondo. Il problema è questo, che ora cerchiamo di illustrare in parole povere: si presume che un computer capace di elaborare molto velocemente milioni di dati da fonti più diverse possa decidere meglio, rispetto ad una mente umana.

Si presume, appunto: per ora, mancano le controprove. Che cosa è, che non funziona? Semplice da spiegare. Il citato computer, per funzionare, ovvero per produrre quegli ordini di acquisto e di vendita che vanno poi a toccare proprio i vostri soldi, deve sapere che cosa fare, come elaborare tutti quei milioni di dati. E soltanto una mente umana può dare questo tipo di istruzioni. Per dare le istruzioni al computer, la mente umana è costretta a inserire nella memoria del computer un modellino matematico. Ovvio che anche mille milioni di dati forniranno risposte sbagliate, se vengono utilizzati nel modo sbagliato. I modellini matematici che oggi vengono utilizzati dall’industria dei Fondi Comuni e dei robo advisors sono modelli che furono ideati e sviluppati quarant'anni fa, negli anni ottanta. Modelli che oggi (anche nelle versioni più sofisticate, come vi viene testimoniato sotto da un titolo della rivista americana Institutional Investor della settimana scorsa, che vedete qui sotto) si trovano in difficoltà a catturare i movimenti dei mercati globali, e quindi a produrre risultati positivi per i clienti che ci investono. Gli algoritmi a cui vengono affidati i soldi dei clienti si basano su relazioni tra le diverse variabili (economiche e finanziarie) che oggi non reggono più. 

Una di queste relazioni, che oggi si trova al centro dell’attenzione anche dei media, è quella tra lo “stile value” dell’investimento e lo “stile growth”. Studi accademici, di tipo statistico, avevano individuato negli anni Ottanta relazioni tra questi due gruppi di titoli che in teoria avrebbero dovuto durare “per sempre”. Ma non è così: lo scorrere del tempo cambia anche i mercati finanziari ed il loro funzionamento, come noi vi abbiamo documentato attraverso i nostri 25 interventi precedenti.

 

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A supporto delle nostre affermazioni abbiamo un grande numero di dati e notizie, alcuni dei quali avete letto qui nelle precedenti 25 edizioni di questa nostra serie. Da qualche tempo, a questi dati e notizie si sono aggiunte anche le analisi di alcuni operatori della nostra industria. Un esempio, a nostro giudizio efficace, oggi ve lo sottoponiamo sia attraverso il grafico che segue, sia attraverso un testo che abbiamo scelto per voi lettori.

L’analisi i cui risultati potete vedere nel grafico è stata condotta dalla società di gestione Evercore, che ha studiato in modo originale la questione che si è aperta tra “value” e growth”. Evercore ha esaminato un’ampia serie di dati relativi al comportamento dei titoli azionari: in particolare, ha studiato la relazione tra i prezzi di un ampio gruppo di azioni ed i fattori che, secondo tradizione, contraddistinguono i titoli di tipo “value” ed i titoli di tipo “growth”. Con i risultati che il grafico più in basso racconta in modo chiaro: se si escludono i due settori di tecnologia e banche, alla borsa di New York si registra una tendenza delle azioni in tutti i settori a reagire in modo molto simile agli impulsi che arrivano dai fattori che abbiamo citato prima, ovvero a quei fattori che secondo la tradizione avrebbero dovuto caratterizzare in modo da distinguerli i titoli “value e i titoli “growth”.

In estrema sintesi, che cosa ci dice il grafico? Che la grande maggior parte dei titoli azionari quotati a New York, oggi, non sono né “value” né “growth.

 

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If you’ve been struggling to make sense of markets in recent weeks, you’re not alone. Investors seem to want to embrace a value tilt – stocks that will do well as an economic recovery gathers steam – but then fall back on the tried-and-true growth stocks that have done well so far, through more uncertain times. But what if those old “value” and “growth” frameworks are the wrong way to measure market moves? “The recent market volatility is more about Quarantine vs. Recovery and Cyclicals vs. Defensives than Value vs. Growth,” argues Evercore’s Dennis DeBusschere in a Thursday note .Value stocks have traditionally belonged to sectors like retail, financials,  energy  and industrials . And in past cycles, companies in areas like technology and consumer discretionary have typically been classified as growth plays. Those broad categories don’t quite capture the current moment, though. In the past, for example, households and businesses may have opted to spend more on technology when the economy was picking up, and to tighten their wallets when things were getting slow. But now, the migration to work-from-home for so many people has changed that calculus. In fact, other than in technology – which is likely to keep outperforming – and financials, which are likely to stay depressed for some time, most stocks have attributes of both value and growth, DeBusschere points out, as seen in his chart.

 

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