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Quale minaccia dai tassi di interesse?

A pochi giorni dalla sentitissima riunione del FOMC di metà marzo, il dibattito fra analisti ed investitori si infervora: quali saranno le ripercussioni sull’andamento del mercato azionario del terzo rincaro del costo ufficiale del denaro?

di Gaetano Evangelista 9 mar 2017 ore 15:12

A pochi giorni dalla sentitissima riunione del FOMC di metà marzo, il dibattito fra analisti ed investitori si infervora: quali saranno le ripercussioni sull’andamento del mercato azionario del terzo rincaro del costo ufficiale del denaro?
percentuale-spreadLa questione è spinosa perché, in effetti, non ci sono precedenti di normalizzazione di una politica monetaria eccezionalmente accomodante, e il rischio che si sia generata una assuefazione all’ultrastimolo è concreto.
La questione peraltro andrebbe affrontata da due diverse e non necessariamente conciliabili prospettive: sotto quella del tasso Fed – in termini nominali, reali; e, soprattutto, effettivi – e sotto quella del rendimento dei Treasury.
Sì, perché alcuni storici correttamente ricordano che il crollo di Wall Street del 1987 fu preceduto da una crescita anomala degli yield sulla parte più remota della curva dei rendimenti americana. E se la storia si ripetesse?

 

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Naturalmente è insensato effettuare un confronto, a distanza di trent’anni, fra un mercato che esprimeva una remunerazione sui dieci anni del 10%, con un mercato ove i rendimenti a fatica superano il 2%.
Bisogna dunque ragionare in termini relativi: di scostamento nel tempo, e non di valori assoluti. Abbiamo dunque calcolato la variazione annuale dei rendimenti del T-Note americano, in modo da “confrontare mele con mele”; esaminando in che misura lo scostamento recente si pone rispetto alla variabilità storica del dato in questione; esprimendo il tutto in termini di deviazioni standard.
La figura in alto conferma l’eccezionalità del balzo dei rendimenti americani – dal 7 al 10% in meno di dieci mesi – nel corso del 1987, prima del Black Monday: una impennata tossica, effettivamente paragonabile a quanto occorso negli ultimi otto mesi. Tuttavia, l’aumento vertiginoso del costo del denaro, trent’anni fa, e la reazione scomposta dei listini azionari, costituirono l’eccezione, non la regola.

Difatti, balzi di analoga magnitudine sono stati sperimentati altre sei volte, da allora; in taluni casi anche in misura più sensibile (tant’è vero che si è reso necessario tagliare la scala per non rendere poco leggibile il grafico). In un caso quell’escursione statisticamente rilevante dei rendimenti fece accendere un semaforo giallo: siamo nel 1999, e Wall Street sarebbe salita ancora per sei entusiasmanti mesi, prima di conoscere un top.
Ma in altre cinque occasioni, una crescita sensibile del costo del denaro non provocò un ribasso delle quotazioni azionarie; né nell’immediato, né “in differita”. Al contrario, la circostanza codificata favorì ulteriori miglioramenti dell’Equity. Da questa prospettiva, il rialzo dei tassi di mercato sperimentata sulla parte lunga della curva dei rendimenti americani, non costituisce necessariamente una minaccia.

 

A cura di Gaetano Evangelista (www.ageitalia.net e www.smartTrading.it)

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