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Nel 2016 rischio tempesta perfetta?

Il 2015 potrebbe essere stato solo l’inizio di una tempesta perfetta. Il 2016 è appena agli esordi. Quest’anno la burrasca ci risparmierà?

di Redazione Soldionline 15 gen 2016 ore 11:33

A cura di Ethenea

Con le parole «L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui!» 1, tratte dalla pièce teatrale The Tempest («La Tempesta»), William Shakespeare aveva colpito dritto nel segno. Quando nel 1611 scrisse quest’opera, doveva avere in mente il 2015. L’impressione è infatti che sia stato un anno di catastrofi ininterrotte.

Proviamo ad elencare, senza presunzione di esaustività, gli eventi che si sono succeduti nell’anno ormai concluso: l’abbandono del tasso di cambio minimo tra CHF e EUR, il quantitative easing della BCE, l’attacco a Charlie Hebdo, il disastro aereo della Germanwings, le nuove elezioni in Grecia, il salvataggio della Grecia, la guerra nell’Ucraina orientale, la svalutazione del renminbi cinese, la guerra in Siria e la crisi dei rifugiati, lo scandalo delle emissioni Volkswagen, il mancato innalzamento dei tassi da parte della Fed a settembre, gli attacchi terroristici di Daesh, alias IS, a Parigi e, ancora, il taglio dei tassi da parte della BCE e il loro rialzo da parte della Fed a dicembre. L’elenco potrebbe facilmente allungarsi, ma rende l’idea del numero di shock che i mercati dei capitali hanno dovuto assorbire, oltretutto in un momento di costante calo della liquidità favorito dalle regolamentazioni. Tali eventi sono stati accompagnati da un inevitabile aumento della volatilità, manifestatasi in molteplici occasioni. Il grafico 1 illustra ad esempio l’andamento del Dax nel corso di tutto il 2015 utilizzando il cosiddetto High-Low-Close-Chart. Basta osservare l’evoluzione annuale (con un +31 % iniziale, una flessione dei corsi del -20 % verso fine estate, un rally autunnale del +22 % e una correzione del -12 % a fine anno2 ) per capire quanto fosse facile sbagliare. 3 Anche le oscillazioni giornaliere sono state notevoli. Nel 2015 l’intervallo di negoziazione quotidiano medio si è collocato a quasi 200 punti, contro i 100 registrati tra il 2000 e il 2014. Un vero e proprio raddoppio. Vi sono stati perfino giorni in cui il Dax ha accumulato, nell’arco della giornata, una variazione di oltre 1000 punti. Anche in questi casi era molto facile compiere passi falsi così come prendere decisioni estremamente efficaci.

Grafico 1: andamento annuale dell’indice azionario tedesco (Dax)
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Nel grafico 2 sono riepilogati i risultati annuali dei principali mercati azionari nelle rispettive valute locali. Come già osservato in relazione all’andamento del Dax, un unico dato può solo dare un’indicazione molto limitata della dinamica complessiva del mercato. Possiamo quindi concludere che il 2015 è stato l’anno delle azioni, a condizione che gli investitori si siano potuti permettere il lusso di non preoccuparsi dei rischi e della volatilità (il che di fatto contraddice il nostro mandato).

Grafico 2: Risultati annuali dei principali indici azionari nelle rispettive valute locali
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Sui mercati obbligazionari la situazione è stata molto diversa. Senza considerare il caso particolare della Grecia, che ha registrato una performance prossima al 25 %, gli altri mercati del reddito fisso hanno evidenziato risultati in linea con le previsioni, collocati nella parte bassa dell’intervallo a una cifra (Grafico 3). Come per il mercato azionario, anche in questo caso un unico dato non può essere rappresentativo della performance annua complessiva. Per quanto riguarda il reddito fisso, gli operatori sono stati e sono tutt’ora alle prese con oscillazioni dei prezzi estremamente significative, sia infragiornaliere che da un giorno all’altro. La struttura stessa del mercato, focalizzato sulle operazioni fuori borsa, rende la situazione della liquidità di questo segmento più problematica rispetto al segmento azionario. Ma approfondiremo l’argomento in seguito.

Grafico 3: Risultati annuali dei principali mercati del reddito fisso. Titoli di Stato con vita residua superiore a un anno
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È praticamente impossibile investire nei mercati azionari e obbligazionari globali senza tenere conto delle valute. E infatti, in mancanza di copertura molti investimenti si rivelano spesso decisamente meno remunerativi che in presenza di copertura; questo vale naturalmente anche al contrario. In ogni caso, è opportuno esaminare più attentamente le componenti valutarie e analizzare i costi e i rischi associati a una copertura. Così facendo si giunge spesso alla conclusione che i mercati valutari a prima vista lucrativi non sono, dopotutto, così redditizi. Gli intervalli di oscillazione annuali compresi fra +11 % e -27 % rispetto all’euro danno un’idea della volatilità (Grafico 4).

Grafico 4: Variazione percentuale delle diverse valute nei confronti dell’EUR nel 2015
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Esaminiamo ora la teoria secondo cui nel lungo termine tra le valute dovrebbe instaurarsi la parità di potere d’acquisto (Purchasing Power Parity, PPP)4. Nel 1986, l’Economist creò il cosiddetto Big Mac Index, un indice che permette di confrontare i prezzi di questo hamburger standard su scala mondiale. Dal Grafico 5 emerge che, secondo questo semplice indice, il franco svizzero risulta sopravvalutato del +70 %. All’estremo opposto troviamo il rand sudafricano, che risulta invece sottovalutato di quasi il 60 %. Questo indice non può comunque essere utilizzato per decisioni di acquisto o vendita, giacché le parità (eventuali) sono raggiunte solo sul lunghissimo termine. Utilizzando le parole di John M. Keynes: «Markets can remain irrational longer than you can remain solvent» (ossia «I mercati possono rimanere irrazionali più a lungo di quanto voi possiate rimanere solventi»).5 Chi, ad esempio, avesse aperto una posizione short in franchi svizzeri nel 2015, sulla base della sopravvalutazione del CHF di oltre il 40 % a fine 2014 stando al Big Mac Index, al più tardi alla fine del 2015 avrebbe avuto un amaro risveglio, dal momento che il CHF si è nel frattempo sopravvalutato di oltre il 70 %. Ne consegue che il Big Mac Index può rappresentare solo uno dei molteplici fattori su cui basare accorte decisioni d’investimento. Senza dubbio, tuttavia, questo indice può rivelarsi molto utile per la ricerca di mete vacanziere convenienti.

Grafico 5: Sopravvalutazione e sottovalutazione percentuale della valuta rispetto all’EUR secondo il Big Mac Index
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Per la completezza di questa retrospettiva non si può fare a meno di gettare uno sguardo al settore del greggio. Il Grafico 6 mostra due tipi di greggio noti, il Brent e il West Texas Intermediate (WTI), nonché l’indice delle materie prime CRB. Il letterale crollo subito dal prezzo del greggio, con la conseguente pressione sui tassi d’inflazione dei paesi consumatori, può apparire alquanto allarmante, ma solo se si osserva l’andamento delle quotazioni petrolifere su un arco di tempo breve.

Grafico 6: andamento dei prezzi del greggio per WTI e Brent nonché dell’ indice delle materie prime CRB
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Il grafico 7 illustra l’andamento del prezzo dell’oro nero a partire dal 1900. Il tonfo da oltre 100 USD a poco meno di 40 USD può apparire drastico, ma il livello dei prezzi (anche corretto per l’inflazione) non è così basso come potrebbe sembrare. Nel lungo termine sembra prevalere un intervallo di prezzo compreso fra 15 e 40 USD, salvo durante la crisi petrolifera degli anni ’70 ed escluse le esagerazioni verificatesi al volgere del nuovo millennio. Si tratta sempre di una questione di prospettiva. Se non si appartiene ad uno dei paesi che si sono fortemente arricchiti con le esagerazioni dell’ultimo decennio, si dovrebbero quantomeno apprezzare gli effetti congiunturali positivi che il basso prezzo del petrolio ha comportato per gli altri paesi. L’effetto negativo sui tassi d’inflazione è comunque soltanto temporaneo, o transitory (transitorio), per usare le parole della Fed.

Grafico 7: andamento del prezzo del greggio WTI (spot) e corretto per l’inflazione
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E ora, prima di concludere, soffermiamoci brevemente sui mercati obbligazionari. Il grafico 8 illustra l’HighLow-Close-Chart del rendimento dei Treasury USA decennali nel corso del 2015. Mentre secondo il grafico 3 il mercato dei Treasury USA avrebbe generato un guadagno di appena l’1,1 % nell’arco dell’intero anno, il grafico 8 mostra un quadro più differenziato. Tutto sommato, considerata l’estrema turbolenza dell’andamento dei rendimenti, si può quasi essere orgogliosi di un rendimento superiore all’1 %. Si può immaginare quanto siano stati elevati i costi di copertura dell’esposizione ai tassi, considerato che sono ben pochi gli investitori in grado di permettersi solo strategie Buy-and-Hold in questo contesto caratterizzato dal predominio di tassi bassi (destinato a perdurare). Il carry yield è semplicemente troppo basso. Anche in questo caso è opportuno dare uno sguardo all’andamento dei rendimenti USA nel lungo termine.

Grafico 8: andamento del rendimento del Treasury USA decennale*
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Il grafico 9 raffigura i rendimenti dei Treasury decennali a partire dal 1871, ossia nell’arco di 144 anni. Se si considera l’intero periodo, il rendimento medio si colloca al 4,6 %. Se però si considera il periodo dal 1973, inizio della prima crisi petrolifera, i rendimenti medi scendono al 3,7 %. L’attuale livello del 2,2 % resta comunque basso, ma sembra meno allarmante, almeno dal nostro punto di vista.

Grafico 9: andamento del rendimento del Treasury USA decennale
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Per concludere, osserviamo il grafico 10, che illustra l’andamento degli spread dell’intero mercato dell’alto rendimento statunitense e del segmento dell’alto rendimento del settore energetico statunitense. Proprio di quest’ultimo fanno parte molte imprese legate al fracking (fratturazione idraulica), un’attività ormai poco remunerativa e penalizzata dal persistente ribasso delle quotazioni petrolifere. Ma questa è solo una parte della storia. Molto più interessante è la storia del successo dei cosiddetti ETF (Exchange-traded funds). La loro storia è iniziata con l’ipotesi che essi costituiscano un’alternativa apparentemente liquida agli investimenti diretti, in particolare nel segmento high yield dove la liquidità è piuttosto scarsa. Poiché però i gestori di ETF possono detenere solo di rado risorse liquide, tutti i fondi in entrata devono essere investiti direttamente, il che ha delle conseguenze sui mercati sottostanti. Le contrazioni degli spread sono esagerate e non rispecchiano più in misura sufficiente il sottostante rischio di credito dell’emittente. Ciò può avere come conseguenza un’allocazione distorta del capitale. Un’altra conseguenza risulta evidente al momento delle uscite. In caso di rimborsi, infatti, gli ETF sono costretti a vendere, non disponendo di riserve liquide. Data la già difficile situazione di carenza di liquidità nel mercato delle obbligazioni societarie, si verificano delle esagerazioni ancora più significative (grafico 10), come si è riscontrato in occasione della recente liquidazione nel segmento high yield del settore energetico.

Grafico 10: andamento degli spread nel segmento high yield USA
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Gli spread sono saliti da un livello già alto di 1000 punti base a quello astronomico di 1400 punti base. Altri sviluppi altrettanto preoccupanti emergono osservando più attentamente il grafico 11. Anche in questo caso ci concentriamo su due aspetti del mercato statunitense dell’high yield. Da un lato consideriamo un indice IBOXX, dall’altro osserviamo un ETF che replica tale indice. La recente correzione rivela che l’ETF quota attualmente su livelli simili a quelli registrati nel giorno del fallimento di Lehman. L’indice stesso è ancora a chilometri di distanza. Il lettore potrà trarre le sue conclusioni, resta il fatto che non sempre replicare l’indice è la scelta ottimale.

Grafico 11: andamento dell’IBOXX USD-High-Yield-Index e del corrispondente ETF
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Cosa implica tutto questo per il 2016?
In sintesi, prevediamo grosso modo una prosecuzione del 2015.
Gli aggettivi turbolento e volatile descriveranno ancora in modo appropriato il mercato dei capitali a fine 2016. I dati macroeconomici generali presentati dal nostro Head of Research Yves Longchamp nelle prossime pagine non fanno presagire grandi cambiamenti a livello di rendimenti. I mercati obbligazionari europei, soprattutto quello dei Bund, presentano rendimenti poco allettanti. Solo il mercato obbligazionario statunitense sembra esibire ancora un leggero potenziale, sulla base delle nostre previsioni, secondo cui la crescita degli USA proseguirà, pur avendo già raggiunto il suo apice. Gli spread creditizi su ambo le sponde dell’Atlantico non sono tanto influenzati dal valore e dall’effettivo rischio di default creditizio, ma sono piuttosto il risultato dell’offerta e della domanda in un mercato ristretto. Per chi va a caccia di buone occasioni, vi sono già alcune opportunità interessanti.
Anche i mercati azionari si limiteranno a seguire il trend del 2015, caratterizzato dall’alta volatilità. Un mercato per niente adatto agli investitori timorosi. La possibilità che si materializzi un trend specifico per il 2016 dipende da un tale numero di variabili esogene che preferiamo astenerci dal fare pronostici.
Nell’insieme, la struttura del mercato continua a svilupparsi in direzione di una minore (anziché maggiore) sicurezza a fronte di marcate distorsioni di mercato. Un rafforzamento della regolamentazione, una diminuzione degli operatori di mercato, una propensione al rischio via via più debole nonché rendimenti più bassi e quotazioni azionarie elevate potrebbero essere i segnali premonitori di una tempesta perfetta. Proprio come quella descritta da Sebastian Junger nel suo libro sul naufragio del peschereccio Andrea Gail.6 In quel caso un ciclone, una tempesta tropicale e una tempesta polare si diedero appuntamento con un esito catastrofico, almeno per l’equipaggio del peschereccio.
Naturalmente continueremo a essere prudenti nel rispetto del nostro principio di preservazione del capitale, per evitare di fare la fine dell’equipaggio dell’Andrea Gail nel 2016.

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