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Gli effetti del QE sono disomogenei

Il Quantitative Easing ha assunto un ruolo preponderante nella quotidianità e nella vita dei mercati: non passa giorno senza che se ne commentino le conseguenze positive o negative

di Redazione Soldionline 17 mag 2016 ore 10:31

A cura di Didier Le Menestrel, Presidente di La Financière de l’Echiquier

Il Quantitative Easing (QE) ha assunto un ruolo preponderante nella quotidianità e nella vita dei mercati: non passa giorno senza che se ne commentino le conseguenze positive o negative, anche se il meccanismo è stato utilizzato su ampia scala dalle Banche centrali solo a partire dal 2008.

Gli effetti del QE sono disomogenei: la strategia monetaria del Giappone ha probabilmente raggiunto i suoi limiti e la BoJ sembra per ora aver accantonato la tentazione del “sempre di più”. La fleboclisi finanziaria della BCE sorregge l'economia europea: il paziente non peggiora ma la guarigione è lenta.
quantitative-easing_2Quanto alla Fed, Janet Yellen, lanciata in un delicato esercizio da trapezista, sussurra ai mercati che, se le condizioni lo permetteranno, i tassi statunitensi dovranno per forza di cose normalizzarsi… Se si osservano le tre macroaree che hanno testato le politiche accomodanti, la prima evidenza non fa che portare acqua al mulino dei loro detrattori: in Giappone, in Europa e negli Stati Uniti, queste strategie innovative sono riuscite a espandere la massa monetaria, ma la velocità1 della moneta si è talmente ridotta – contro ogni aspettativa – che l’impatto sui prezzi è stato il contrario di quanto ci si aspettava. Invece, se si studiano le valorizzazioni delle società americane, appare che il Dow Jones e lo Standard and Poor’s hanno tratto decisamente vantaggio dall'abbondante liquidità. In che misura? O, girando la domanda: “Quale sarebbe il valore dei mercati senza gli interventi della Fed?”

Un modo per rispondere consisterebbe – come hanno fatto recentemente due economisti della Fed2 – nel calcolare semplicemente quella che sarebbe stata la performance dei mercati statunitensi sostituendo la performance delle giornate in cui si è tenuto un meeting della Fed con la performance media del periodo. La conclusione è sorprendente: fino al 1985, le quotazioni dei mercati con o senza Fed meeting sarebbero state identiche. Dopo tale data, un mercato le cui performance conseguite nelle giornate di Fed meeting fossero sostituite dalle performance medie registrerebbe oggi un livello inferiore del 25%. Le parole dei banchieri centrali hanno quindi avuto un effetto innegabile sui multipli di borsa: “All'inizio era il Verbo”… E anche alla fine!

Un'analisi più dettagliata del periodo di osservazione rivela inoltre che l'effetto più marcato si ha nel periodo 2008-­‐ 2012. È abbastanza logico: all’effetto sorpresa del 2008 aveva fatto seguito un effetto "dimensionale", vista l'entità di queste politiche. Dal 2012 invece l’effetto è nettamente diminuito, traducendo probabilmente l'erosione dovuta all'abitudine e l'usura degli operatori che hanno ormai bisogno di stimoli sempre più ravvicinati per reagire. Per noi investitori, questa usura è un indizio supplementare che rende ancora più acuta la nostra paranoia a proposito dei grandi vincitori delle politiche di QE, i famosi "bei modelli di crescita ben valorizzati". Parallelamente, ci invoglia anche a rivolgerci nuovamente ad alcuni titoli poco amati, i "negletti" delle politiche delle Banche centrali. In una parola, a riascoltare l'appello del "call value", tanto caro ai nostri amici anglosassoni.

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