La crisi degli algoritmi: tenere o scappare?
Continua l'approfondimento sulla crisi che ha colpito le gestioni di tipo quantitativo e sulle implicazioni negative di questa fase su alcune categorie di approcci
di Valter Buffo 8 set 2020 ore 14:31Commento di recce-d.com
Per 22 settimane su SoldiOnline.it Recce’d ha approfondito il tema della crisi che ha colpito le gestioni di tipo quantitativo (che si affidano ad algoritmi e modelli matematici che operano in automatico acquisti e vendite, sostituendosi al gestore) e delle implicazioni negative di questa crisi sia per la categoria dei cosiddetti robo-advisors, sia per quegli operatori che affidano agli algoritmi la selezione tra i Fondi Comuni di Investimento, sia più in generale per tutta la moda del Fintech.
La crisi è ampia, profonda e colpisce direttamente gli interessi di quegli investitori che hanno accettato di prestare il proprio denaro a operazioni di questo tipo, fondate sulla convinzione che l’algoritmo e/o il modellino matematico possano produrre risultati migliori rispetto alle scelte (definite discrezionali ed emotive) del gestore in carne ed ossa.
I media di tutto il mondo hanno portato questa crisi fino alla prima pagina, prendendo spunto in modo particolare dal crollo della tradizionale relazione che legava i titoli azionari di tipo “value” ed i titoli azionari di tipo “growth”, un fatto che costituisce la caratteristica più evidente dell’andamento delle borse di tutto il mondo tra il gennaio e l’agosto 2020.
Vi abbiamo anche documentato il fatto che questa crisi arriva a fare da spunto per una lunga serie di scherzi, battute e prese in giro: ecco qui sotto un campione (da un profilo Twitter), con una fotografia della manifestazione di protesta che si è svolta la settimana scorsa davanti alla sede della Federal Reserve americana. La didascalia dice: “Gli investitori di tipo value ne hanno abbastanza”. La battura fa riferimento al fatto che, secondo numerosi osservatori, le politiche monetarie messe in atto dalla Fed negli ultimi anni, ed in particolare dopo la crisi del COVID-19, abbiano esse stesse alimentato la corsa all’acquisto dei titoli azionari “growth” ed in particolare delle azioni dei Big Tech USA.
Si capisce perfettamente che un fenomeno così ampio, duraturo, e per questo anomalo susciti ironie e commenti salaci: ma non per tutti la cosa è divertente. Ad esempio: il più noto, ed uno dei più seri, investitori al mondo ad essersi affidati, da decenni, ad algoritmi di calcolo e modellini automatici per l’esecuzione degli ordini si chiama Cliff Asness, ed è il fondatore della nota società di gestione AQDR. Asness la settimana scorsa ha pubblicato in Twitter l’immagine che vedete qui sotto, commentandola così: “Non fa più ridere”. Ovviamente, non fa più ridere lui, ma ridono ancora meno tutti i clienti di AQR.
Si comprende facilmente sia da un lato l’ironia e lo scherno, e dall’altro anche l’ansia di chi ci ha creduto e ci crede ancora, come ad esempio Asness. Agli uni, come agli altri, manca in questo momento una spiegazione: manca la capacità di comprendere il perché. Si fronteggiano in questo momento due interpretazioni opposte: da un lato, c’è chi sostiene che la relazione tra titoli “value” e titoli “growth” sia esistita soltanto in un ben definito periodo della storia dei mercati finanziari; e dall’altro lato chi dice che basta attendere e tutto tornerà come prima.
I primi sostengono che i mercati sono cambiati nelle loro componenti strutturali, gli altri che si tratta di un cambiamento temporaneo. I primi suggeriscono di “abbandonare la nave”, gli altri chiedono di attendre ancora. D’accordo, attendere: ma quanto? Per rispondere alla difficile domanda, può essere utile leggere insieme un brano dal Financial Times della settimana scorsa (al Financial Times è dovuto anche il grafico che chiude il nostro contributo di oggi). La settimana prossima, riprenderemo proprio dalla frase che chiude il passaggio dell’articolo del FT.
There are ways to define a value stock, but it is most simply defined as one that is trading at a low price relative to the value of a company’s assets, the strength of its earnings or steadiness of its cash flows. They are often unfairly undervalued because they are in unfashionable industries and growing at a steadier clip than more glamorous stocks, which — the theory goes — irrational investors overpay for in the hope of supercharged returns. Value stocks can go through long fallow periods, most notably in the 1960s — when investors fell in love with the fast-growing, modern companies like Xerox, IBM and Eastman Kodak, dubbed the “Nifty Fifty” — and in the late 1990s dotcom boom. But each time, they have roared back and rewarded investors that kept the faith. “The one lesson we’ve learnt over the decades is that one should never give up on value investing. It’s been declared dead before,” says Bob Wyckoff, a managing director of money manager Tweedy Browne. “You go through some uncomfortably long periods where it is not working. But this is almost a precondition for value to work.” (…) But why have they now been so wrong for so long? Most value investors attribute the length of the underperformance to a mix of the changing investment environment and shifts in the fabric of the economy.