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Analizziamo il rally dell'S&P500

Quanta strada è stata percorsa dai minimi record del 2009! Il 6 marzo di quell’anno, nel corso di una seduta turbolenta, l’indice crollava a 666

di Redazione Soldionline 23 set 2014 ore 11:24

A cura di Marc Craquelin, Direttore della Gestione di Financière de l’Echiquier


2000… un numero che evoca subito il nuovo millennio (ma non più tanto giovane ormai!). Ha la bellezza delle cifre tonde. 2000 è anche il livello che ha raggiunto recentemente lo Standard and Poor’s 500, soglia emblematica che invita a soffermarsi sulla splendida salute di cui godono le azioni americane.

Quanta strada è stata percorsa dai minimi record del 2009! Il 6 marzo di quell’anno, nel corso di una seduta turbolenta, l’indice crollava a 666: altra cifra simbolica, un numero palindromo (per gli amanti dei giochi letterari) o il numero del diavolo, per i lettori dell’Apocalisse. Ma lasciamo da parte le elucubrazioni numerologiche.  Ricollochiamo piuttosto nella storia borsistica la recente bella performance dell’indice guida americano.

200% in cinque anni è sicuramente una dinamica di tutto rispetto, ma non la più spettacolare della storia dei mercati rialzisti. Ricordiamo che sono considerati mercati rialzisti i periodi di espansione durante i quali le fasi di rintracciamento non superano il 20%. Tra i rialzi più significativi del secolo scorso, quello del 1920-1929 (+495% per il Dow Jones) o del 1987-2000 (+587%) sono accomunati dal fatto di essersi conclusi con una bolla. Questi due incrementi record avevano anche un’ampiezza e una durata di molto superiori al movimento attuale… che però non si è ancora concluso!

analisi-tecnica_3Dopo questa contestualizzazione storica, possiamo affinare la lettura del recente rialzo dell’indice scomponendo il dato. Negli ultimi tre anni, il 30% dell’incremento dell’indice deriva dall’aumento dell’utile  delle azioni sottostanti, mentre il restante 70% è riconducibile all’espansione dei multipli(1). Per citare il più emblematico di tutti, il Price Earning Ratio(2) è oggi pari a 19 negli Stati Uniti (significa che l’azione vale 19 volte l’utile per azione). Correggendo questo multiplo in base al ciclo economico (il rapporto si calcola utilizzando la media degli utili per azione degli ultimi dieci anni) il dato sale a 26. Il riferimento storico è lungi dall’essere rassicurante, poiché la media a lungo termine di questo multiplo equivale a 18: le azioni americane non sono certo convenienti.

È meglio venderle? La tentazione c’è, ma un ragionamento relativo ridimensiona seriamente le conclusioni. Negli ultimi due anni, il rendimento dei titoli azionari è decisamente superiore a quello dell’indebitamento. Un esempio emblematico: il dividend yield di McDonald’s è pari al 3,5% mentre la società ha una capacità di indebitamento a cinque anni inferiore al 2%. I paragoni sarebbero ancora più lusinghieri in Europa, dove i tassi delle obbligazioni sono più bassi e i livelli dei dividendi più elevati. Visto da questa angolazione, è il mercato obbligazionario a sembrare caro mentre la valorizzazione delle azioni pare più ragionevole.

Care in termini assoluti, convenienti in termini relativi, alle azioni americane sembra calzare bene la bella formula attribuita a Talleyrand: «Quando mi giudico, sono disperato. Quando mi paragono, mi rassicuro…».

(1) A parità di utile, se il P/E di un’azione aumenta, il prezzo del titolo si apprezza; si parla di rialzo del mercato dovuto all’espansione dei multipli.
(2) Price Earning Ratio (abbreviato PER o P/E): chiamato anche “rapporto prezzo su utili”, si ottiene dividendo la capitalizzazione di borsa per l’utile netto.

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