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Biotecnologie: scommessa o investimento?

La richiesta di attrezzature mediche, di nuovi farmaci, di terapie innovative per combattere le malattie legate all’invecchiamento aumenta senza sosta

di Antonio Lucenti 2 feb 2010 ore 13:47
Il mondo invecchia, o, almeno, invecchiano gli uomini, perché il miglioramento delle condizioni di vita è interesse di tutti ed i supporti alla salute sono sempre più efficaci e conformi alle necessità. Considerando il fatto dal punto di vista sociale: possiamo ascoltare il messaggio che viene dagli USA dal presidente Obama, considerare l’impegno di migliorare le condizioni di vita che manifestano le popolazioni degli stati cosidetti emergenti, valutare le necessità delle popolazioni che ancora vivono all’estrema periferia del nostro benessere senza parteciparvi. Considerando i fatti dal punto di vista commerciale: la legge della domanda che alimenta l’offerta, fa sì che la richiesta di attrezzature mediche, di nuovi farmaci, di terapie innovative per combattere le malattie legate all’invecchiamento aumenti senza sosta. Io credo che la risposta a questi impulsi, diversi per urgenza, ma non per obiettivi, sia possibile cercarla nella biotecnologia. Ho sollecitato uno specialista, il dottor Gianpaolo Nodari della J. Lamarck SIM SpA ad aprirci ancora una porta (*) sul mondo biotech, per una visione in chiave finanziaria.

nodariDottor Nodari, la sua società è ben nota agli appassionati del settore, tuttavia sarà opportuno, in questo contesto, che lei ce la presenti illustrando il particolare compito che svolge nel campo finanziario e a chi si rivolge

«Gent.mo Sig. Lucenti, mi permetta innanzitutto di ringraziarla per l’attenzione rivolta alla nostra Società. J. Lamarck è una SIM di consulenza altamente specializzata in biotech companies che offre un valido supporto a chi desidera investire in biotecnologia, settore che rappresenta il futuro della medicina e che è destinato a soppiantare il settore farmaceutico nei portafogli degli investitori più evoluti. Fin dalla sua nascita, avvenuta ormai 14 anni fa, la nostra Società si è indirizzata a clienti privati con grandi patrimoni o family office che intendono dedicare una parte del proprio patrimonio alla biotecnologia. Siamo fermamente convinti che solo un elevato livello di specializzazione possa essere in grado di dare i migliori risultati ai nostri clienti. Nel 2008, in ottemperanza ai nuovi decreti di recepimento della direttiva MIFID la società si è trasformata in SIM di consulenza, nuova figura di intermediario finanziario riconosciuta dalle autorità di vigilanza come soggetto autorizzato ad erogare il servizio di “consulenza finanziaria senza detenzione, nemmeno temporanea delle disponibilità finanziarie della clientela”. Aggiungo che J. Lamarck SIM è assolutamente indipendente da banche o da società di collocamento e questo, unito al fatto di essere remunerati a parcella dal cliente è, a mio avviso, ulteriore garanzia di consulenza non gravata da conflitti di interesse e prestata nell’esclusivo interesse del cliente».

La riforma che il presidente degli USA sta cercando di attuare nella sanità pubblica avrà sicuramente un impatto sul mercato sottostante, ad oggi in assoluto il più significativo e rappresentativo per la presenza, in numero e qualità, di soggetti operativi. Va da sé che questo progetto conferirà una spinta potente anche alla ricerca. Ci può delineare per sommi capi la situazione presente ed illustrarci quella che sta maturando?

«Il primo punto che desidero sottolineare è che nonostante si sia sempre discusso dell’esigenza (giustissima!) di una riforma del settore sanitario americano, le maggiori innovazioni riguardo a nuove cure o nuovi farmaci è sempre arrivata dagli USA. Negli ultimi tempi però, i colossi farmaceutici mondiali non sono più stati al centro di questa innovazione: per anni si sono cullati sui brevetti dei loro “blockbuster” (stato riconosciuto a farmaci che garantiscono introiti superiori a miliardi di dollari all’anno) ed i CEOs di queste multinazionali hanno preferito presentare utili sostanziosi ai loro azionisti, non diluiti cioè da eccessivi investimenti in R&S. Ma l’avvento dei generici, unito alle numerose scadenze brevettuali degli ultimi anni (circa 80 miliardi di dollari di brevetti scaduti negli ultimi due anni ed altri 160 miliardi in scadenza da qui al 2015) hanno fatto sprofondare il settore in una profonda crisi.

La riforma sanitaria voluta dal presidente Obama, che, fra l’altro, si prefigge di tagliare le spese per i farmaci, non farà che peggiorare la situazione per le “Old Pharma”. Ma purtroppo, realizzare farmaci non è facile: considerato che, mediamente servono 14 anni e USD 800 milioni per portare una molecola dalla scoperta alla commercializzazione, le società farmaceutiche tradizionali, ricche di cash, non dispongono di altrettanto tempo. Da qui l’esigenza di correre ai ripari cercando di acquisire, a qualsiasi prezzo, società biotecnologiche che invece hanno ricche pipeline. Su scala industriale sono così cominciate importanti attività di acquisizione di grandi e piccole aziende biotecnologiche da parte di grandi società farmaceutiche obbligate, al fine di dotarsi di nuovi progetti utili alla sopravvivenza, a guardare al settore che vanta più di 300 farmaci in fase finale di sperimentazione. Farmaci generalmente composti da cellule viventi, in grado di garantire anche una forte protezione contro la concorrenza dei generici, dato che attualmente non vi è alcuna legge che consenta la possibilità di procedere all'approvazione di copie di farmaci biotech.
Dopo AstraZeneca, che nel 2007 si è aggiudicata Medimmune per circa 16 miliardi di dollari, nel 2008 è stata la volta di Millennium, acquistata da Takeda, la più grande società farmaceutica giapponese, per USD 8,8 miliardi. Nel settembre dello stesso anno, in piena crisi finanziaria, Ely Lilly ha sborsato 6,5 miliardi per Imclone. Lo scorso anno Roche si è aggiudicata il restante 44% di Genentech che ancora non deteneva per 48 miliardi di dollari, mentre durante l’estate Brisol Meyers Squibb ha acquistato la “piccola” Medarex per 2,5 miliardi di dollari. La necessità tra le aziende farmaceutiche di rimpinguare le loro scarne pipeline non si è conclusa ed i mercati attendono ora di sapere chi sarà la prossima, visto che Pfizer, la più grande azienda farmaceutica del mondo e Johnson & Johnson hanno dichiarato la loro intenzione di procedere a nuove acquisizioni, alimentando grande euforia in un settore comunque sano e con alti tassi di crescita».

Si parla sempre molto degli USA, ma da lei gradirei anche un cenno sullo sviluppo che alimentano paesi come l’India e la Cina, forse più sommessamente, ma non con minor decisione

«L’india è sempre stata per tradizione un paese “risk averse” per quanto riguarda l’innovazione. Dal 1970 infatti, il “Patents Act” non prevedeva alcuna forma di protezione per i prodotti (mentre al contrario prevedeva una qualche forma di protezione per i processi produttivi) con il risultato di non incentivare lo sviluppo del prodotto e di non produrre la nascita di nuove iniziative innovative. Con la riforma del 2005 anche l’India ha puntato sul rafforzamento della proprietà intellettuale e dei brevetti ma purtroppo l’industria ancor oggi soffre una mancanza di “venture capitalist” disposti a finanziare nuovi progetti. Così ci ha pensato il governo, che anche nel campo Biotech ha lanciato il “Biotechnology Industry Partnership Program” con lo scopo di raccogliere fondi da destinare alla ricerca. Ma purtroppo è un po’ tardi ed oggi il Paese sembra più concentrato sulla realizzazione di generici o sulla produzione conto terzi piuttosto che sullo sviluppo della ricerca.

La Cina negli ultimi anni, ha continuato a essere il partner ideale per l’industria biotech occidentale alla costante ricerca di strutture in grado di consentire lo sviluppo delle loro pipeline ma anche una sostanziosa riduzione dei costi fissi. Anche qui comunque il venture capital è ancora molto modesto rispetto all’occidente e la gran parte dei finanziamenti arriva dal governo che ha dichiarato l’investimento in biotecnologia una priorità annunciando il suo obiettivo di arrivare, nel 2020, ad investire il 2,5% del PIL nella ricerca biomedica. Vi sono però ancora poche “public companies”, che spesso non varcano i confini nazionali (anche per problemi legati alla sicurezza dei farmaci ) ed il loro valore difficilmente raggiunge capitalizzazioni accettabili. A differenza del Biotech USA, che nel 2008 si è rivelato il miglior settore in borsa, contenendo le perdite intorno al 10%, il settore biotech cinese ha lasciato sul terreno il 57% del valore».

Entrando nel vivo dell’argomento: quali sono i filoni di ricerca più significativi della biotecnologia, ed in quali rapporti sono le grandi aziende farmaceutiche con il biotech?

«La biotecnologia è una scienza che trova applicazione in molti campi, dal farmaceutico all’agricoltura, all’alimentare. J. Lamarck SIM ha deciso di specializzarsi nella biotecnologia applicata al farmaceutico dove troviamo diversi filoni di ricerca interessanti; sicura rilevanza assume la ricerca sulle cellule staminali che potrebbero veramente cambiare la storia della medicina. Gli scienziati sperano che le cellule staminali possano un giorno consentire di rigenerare diversi tipi di tessuto o riparare e rimpiazzare organi danneggiati, malformazioni al midollo spinale, articolazioni danneggiate e cellule celebrali lesionate dal morbo di Parkinson o dall’Alzheimer. Appena insediato, il presidente USA Obama ha subito provveduto a togliere il veto alla libertà di sperimentazione in questo campo ed oggi si stanno sperimentando terapie che in un futuro non troppo lontano potrebbero consentire alle persone con lesioni alla spina dorsale di poter tornare a camminare.

Un altro campo di sicuro interesse riguarda la lotta contro il cancro e le malattie autoimmuni: è infatti dal biotech che arrivano gli anticorpi monoclonali utilizzati per il trattamento di diverse patologie oncologiche e malattie quali artrite reumatoide, sclerosi multipla, lupus e molte altre. Quattro decenni dopo che il presidente Richard Nixon ha dichiarato guerra al cancro, questo è oggi la principale causa di morte per le persone di età inferiore agli 85 anni, con una percentuale pari ad un morto ogni quattro cittadini americani. Ma, per fortuna, la biotecnologia ha fatto passi da gigante nel settore di ricerca terapeutica oncologica, producendo nuovi farmaci che, colpendo solo le cellule tumorali anziché danneggiare anche il tessuto sano, hanno portato ad un significativo cambiamento nel trattamento del cancro. Ora, infatti, i medici parlano sovente di malattia cronica, anziché mortale. Negli ultimi anni diversi farmaci biotech per la cura specifica del cancro hanno ottenuto l’approvazione da FDA. Tra questi, Avastin, primo farmaco oncologico, di proprietà di Genentech (Roche), ha allungato le aspettative di vita per i malati di cancro ai polmoni, al seno e al colon. Ricordo inoltre che il premio nobel per la medicina nel 2009 è stato assegnato ad uno studio su telomeri e telomerasi e sulla loro attività nelle cellule tumorali, una ricerca biotech che denota la possibilità di sviluppare farmaci inibitori in grado di impedire le metastasi.

La tanto sospirata era della medicina personalizzata non sembra più così lontana. Per anni, la farmaceutica tradizionale ha evitato la biotecnologia, essendo poco propensa a scommettere su tecnologie non ancora sperimentate. Certo, non è stato d’aiuto nemmeno il fatto che i primi tentativi in ambito biotecnologico abbiano incontrato diversi imprevisti negli anni ’80 e ’90.  Oggi, però, le Big Pharma stanno pagando molto caro questo atteggiamento di avversità al rischio: sono poche le società che oggi hanno farmaci promettenti in fase di sviluppo e molte sono bloccate da una strategia commerciale fortemente legata ai farmaci blockbuster  (i cui brevetti stanno scadendo) anziché concentrarsi sullo sviluppo di farmaci “personalizzati”. Contrariamente a questa politica, il pensiero filosofico a cui si è ispirata a lungo l’industria biotecnologica è stato “Focalizzarsi sui bisogni insoddisfatti”. E molti farmaci lo stanno già facendo. Ora le Big Pharma vogliono prendersi la rivincita, diventando partner di società biotech, in parte acquistandole, o cercando di emulare il loro successo addossandosi parte delle spese da dedicare alla R&S. Novartis, ad esempio, tre anni fa ha spostato la sede organizzativa di ricerca mondiale dalla Svizzera a Cambridge, Mass., sperando, così, di poter operare come una società biotecnologica. Gli sforzi dell’industria farmaceutica tradizionale per imitare, o per unirsi a quella biotecnologica, dovrebbero essere un monito per accelerare l’innovazione in campo medico».

Spesso si legge sui giornali, riferito, genericamente, alle azioni di aziende quotate, il verbo “scommettere”. Secondo me impropriamente, quando si parla degli strumenti delegati a sostenere il primo mattone del nostro benessere: la salute. Lei è d’accordo con me a considerare inadeguato il termine, e di sostituirlo con “ investire”?

«Assolutamente si! Nell’esperienza degli ultimi anni abbiamo visto sempre più risparmiatori avvicinarsi alla borsa, ed al settore biotech, con un atteggiamento fortemente speculativo sul breve termine, quasi con una mentalità da day-trader. I rischi per gli investitori di questo tipo, specialmente nel settore della biotecnologia, sono molto elevati. Spesso non si presta adeguata attenzione alla scelta dei titoli, che vengono comprati solo perché “l’approvazione di un farmaco è imminente”, senza preoccuparsi di sapere se quel farmaco fatturerà 10 milioni o 10 miliardi… Il mio consiglio all’investitore “mordi e fuggi” è quello di astenersi dall’investire in questo settore in quanto la volatilità di breve periodo potrebbe colpire negativamente il suo investimento ed allo stesso tempo fargli perdere le opportunità di una crescita di lungo termine».

Pare che si sia in uscita da una crisi finanziaria, ma non ancora da quella economica che ancora sta travagliando il mondo. In questo periodo passato, qual è stato il comportamento del comparto biotech?

«Indubbiamente la crisi si è fatta sentire anche nel settore, perché nel corso del 2008 molti hedge fund, una preziosa risorsa per le biotech companies, hanno dovuto chiudere le loro posizioni improvvisamente mettendo in seria difficoltà le piccole realtà biotech che facevano affidamento sui loro acquisti. E tutto questo non per disincanto, come ogni tanto avviene nel settore, ma per pura riduzione delle loro capacità di investimento. La capitalizzazione di mercato del settore biotech, cresciuta del 21% da gennaio ad agosto 2008 è tornata a livelli di inizio anno, denotando comunque una buona tenuta del settore rispetto agli altri indici come Dow Jones, Nasdaq o S&P, scesi del 40%, e questo grazie soprattutto al venture capital che, seppur diminuito del 19% rispetto al 2007, ha fatto registrare il secondo maggior volume nella storia del settore biotech. Nel nuovo scenario le società hanno prontamente modificato i loro business model, cercando di stringere accordi di partnership per lo sviluppo di prodotti che prima avrebbero sviluppato in autonomia, mentre altre società con pipeline valide sono divenute interessanti takeover target, creando aspettative di fusioni ed acquisizioni che hanno contribuito a far sì che in borsa, la crisi del 2008 si sia sentita poco».

Dopo aver toccato gli argomenti più generali e strutturali, affiderei la conclusione all’ultima domanda, unica e trina.  E forse la più attesa da chi legge un giornale finanziario. Possiamo costruire con ragionevole tranquillità sulle fondamenta finora posate? Quali sono le prospettive di sviluppo di nuove imprese? Quale orizzonte temporale ritiene adeguato per l’investitore in questo comparto?

«Se affrontato con cognizione e professionalità, e soprattutto con una visione di medio-lungo termine, l’investimento in biotecnologia permette senza dubbio sonni tranquilli: le sottolineo come nel 1989 il fatturato della biotecnologia era US$ 2,7 miliardi. Nel 2008 le case biotech hanno incassato US$ 90 miliardi. Questi numeri, uniti al fatto che attualmente vi sono più di 800 i farmaci biotech nelle varie fasi di sviluppo per malattie come cancro, alzheimer, malattie cardiovascolari, diabete, sclerosi multipla ed artrite dovrebbero far capire agli investitori come i titoli biotech rappresentino un’opportunità d’investimento paragonabile agli investimenti fatti nelle case farmaceutiche tradizionali nei anni ’60-’80. Un investimento sicuro fondato su solide basi».


Antonio Lucenti
lucenti@antoniolucenti.it

(*) BBBiotech, una promessa per il futuro
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