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Rivoluzione copernicana nella finanza etica

lunedì, 9 novembre 2009

Un recente rapporto di Unep Fi ha posto le basi per quella che si può definire, senza neanche troppa enfasi, una rivoluzione copernicana nel mondo della finanza etica o socialmente responsabile. Vediamo perché.

Da anni il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente ha lanciato un’iniziativa dedicata alle grandi società d’investimento internazionali invitandole a promuovere nel loro operato i principi dell’investimento responsabile.

Ora Unep Fi, in particolare l’Asset management working group che opera al suo interno dal 2003, di cui fanno parte una quindicina delle maggiori società d’investimento a livello globale (per l’Italia c’è Eurizon Capital), ha prodotto negli ultimi tempi un rapporto intitolato “Fiduciary responsibility. Legal and practical aspects of integrating environmental, social and governance issues into institutional investment”, che ha sviluppato un precedente rapporto del 2005 che verteva anch’esso sulla combinazione tra lo Sri e le responsabilità fiduciarie dei gestori di investimenti istituzionali (ad es. i fondi pensione), cioè su come l’integrazione di considerazioni Esg (environmental, social and governance) nell’attività d’investimento contribuisce a soddisfare gli obblighi che i gestori ricevono per mandato, per contratto.

Questo rapporto ha posto una questione che non avevo mai visto porre in questi termini, in tanti anni che mi occupo di finanza etica. Un fatto che a mio avviso costituisce un ribaltamento totale di prospettiva, a 180°, del modo in cui si guarda alla finanza etica.

Il rapporto, infatti (scaricabile dal sito di Unep Fi, sono un centinaio di pagine), dice a chiare lettere (vedere all’interno dell’Executive summary, a pagina 15, e poi più diffusamente a pagina 28) che, nel caso ad esempio di un fondo pensione, anche quando il fondo pensione stesso non dichiara formalmente di voler prendere in considerazione, nella sua attività d’investimento, aspetti sociali, ambientali e di governance, il gestore dovrebbe comunque prenderli in considerazione! A ciò infatti lo obbligherebbe la sua responsabilità fiduciaria, il suo dovere fiduciario nei confronti di chi gli ha affidato il mandato di gestione. Di più: se il gestore non considera criteri Esg nella sua attività, corre il serio rischio di essere citato legalmente per negligenza, cioè per non aver fatto fino in fondo, con tutte le accortezze del caso, il suo mestiere. Di non aver ben gestito, cioè.

La rivoluzione a cui accennavo sta proprio in questo: implicitamente le riflessioni del rapporto assegnano ai criteri di selezione Esg una forte valenza in termini di capacità di salvaguardare gli investimenti, specie nel lungo periodo, al punto che se un gestore non li utilizza può venir citato in giudizio per essere stato negligente, anche quando il mandato di gestione definito contrattualmente non li prevede in maniera esplicita. Collegato a ciò, il rapporto suggerisce ai fondi pensione di chiedere ai propri gestori regolari e periodici rapporti sulla loro expertise, e sulle competenze del loro team, in fatto di criteri d’investimento Esg.

I criteri della finanza socialmente responsabile diventano quindi, per la prima volta, almeno a mia conoscenza, parte integrante del dovere fiduciario del “buon gestore”, anche quando non vengono esplicitati.

Per usare parole di moda, si tratta di uno “sdoganamento” definitivo della finanza etica, che viene quindi integrata a pieno titolo nei criteri d’investimento “mainstrem”: non è più questione di finanza “buona”, di non guardare solo alla bottom line, ma è parte essenziale del dovere di un buon gestore. Che deve far sue le considerazioni sociali, ambientali e di governance nell’attività d’investimento se non vuol correre il rischio di essere accusato di non saper fare il proprio mestiere.

“SRivoluzione” compiuta? Diciamo iniziata.



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