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Perché la Cina è diversa

Bolle azionarie che crollano sull'economia reale, minacciosi squilibri macroeconomici e dubbi crescenti sul futuro dell'economia cinese. Tutto sensato? Non secondo Stephen Roach

di Marco Delugan 10 lug 2015 ore 12:03

Il recente crollo dei mercati azionari e il perdurare di alcuni importanti squilibri macroeconomici ha fatto sorgere non pochi dubbi sulle prospettive future dell'economia cinese. Ma le cose potrebbero essere diverse da quello che sembra. Lo sostiene Stephen Roach, Professore di Economia alla Yale University ed ex presidente di Morgan Stanley Asia nell'articolo Why the Stock Meltdown Doesn’t Spell Doom for China pubblicato nei giorni scorsi su Slate.com. Secondo l'economista americano, il modello di sviluppo economico cinese è molto particolare e in fase di grande trasformazione, ma non presenta veri pericoli di crisi imminente.

cina_1Fin dai tempi di Marco Polo, l'Occidente ha sempre visto la Cina attraverso le stesse lenti con guarda se stesso. Lo ha detto, anni fa, Jonathan Spence, Professore Emerito di Storia all'Università di Yale. E' una delle sue “frasi famose”. E mentre i mercati finanziari globali sono stati sul punto di svenire dopo il recente crollo dei mercati azionari cinesi, questo modo di guardare a oriente è tornato in gioco un'altra volta.

Negli ultimi anni la visione occidentale della Cina è peggiorata: per la paura di bolle speculative, di investimenti in eccesso, di voragini di debito e cioè degli stessi squilibri che hanno afflitto le principali economie del mondo sviluppato nel corso degli ultimi due decenni. Ma la verità è molto meno desolante.

Il crollo della borsa è il caso più evidente, in questo senso. Sì, una grande bolla è scoppiata, quando l'8 luglio il mercato azionario cinese ha perso il 31 per cento rispetto al picco del 12 giugno, raggiunto dopo una crescita di quasi il 150 per cento rispetto all'anno precedente. E nonostante massicce azioni di sostegno messe in atto dal governo, non si può dire fino a quando le vendite andranno avanti.

La domanda che adesso in molti si pongono è esattamente la stessa che è stata sollevata dallo scoppio di precedenti bolle azionarie, e in particolare di quelle del Giappone e degli Stati Uniti: la carneficina nei mercati finanziari danneggerà anche l'economia reale?

Nel caso della Cina, la risposta è no. In Economia, il collegamento tra i mercati finanziari e l'attività economica reale viene rappresentato da quello che gli economisti chiamano "effetto ricchezza". L'effetto ricchezza dice che i guadagni di borsa (sia realizzati che potenziali) vanno ad incrementare i consumi, con un effetto positivo sull'andamento complessivo dell'economia. E viceversa, le perdite vanno a ridurli.

L'economia cinese ha però una sorta di protezione interna dall'effetto ricchezza. Il peso dei consumi sul Pil è infatti del solo 36%, circa la metà di quanto avviene negli Stati Uniti. Lo scoppio della bolla finanziaria cinese farà certamente soffrire molti investitori, ma l'effetto sull'economia reale sarà probabilmente limitato.

Oltre alla bolla finanziaria, altri squilibri preoccupano gli economisti occidentali, come l'eccesso di capacità produttiva in settori come l'acciaio, il cemento, il vetro e altri settori di basse. O la quota degli investimenti sul Pil, che raggiunge il 50%. Tutti segnali di un crollo imminente, secondo molti commentatori.

Ma anche per questi squilibri, la Cina è diversa dall'occidente, per almeno due motivi. Il primo è che la Cina sta attraversando un periodo urbanizzazione senza precedenti. Dal 2000 la popolazione urbana è aumentata di circa 20 milioni di cittadini ogni anno. In termini di case e di infrastrutture connesse, la Cina sta crescendo di due New York e mezzo all'anno. Ed è probabile che questo ritmo di crescita prosegua almeno fino al 2030.

In secondo luogo, bisogna ricordare la differenza tra stock e flussi. La quota di investimenti sul Pil – che è concettualmente un flusso - in Cina è molto alta perché lo stock di capacità produttiva è molto basso. Uno dei tristi lasciti della Rivoluzione culturale cinese. Infatti, lo stock di capitale per lavoratore – uno dei fattori chiave della produttività – è il 15% di quello degli Stati Uniti e del Giappone. Lo sviluppo economico della Cina dipenderà dalla capacità di incrementare il rapporto tra capitale e lavoro, un risultato che potrà essere raggiunto solo mantenendo un alto flusso di investimenti anche nel prossimo futuro.

Sicuramente il debito cinese – stimato al 250% del Pil – può essere causa di preoccupazioni. E' un problema di tipo giapponese che a prima vista potrebbe portare a conseguenze nefaste. Ma anche qui le lenti occidentali rischiano di sviare l'analisi.

Il sistema finanziario cinese è, nella migliore delle ipotesi, solo parzialmente sviluppato. La maggior parte del credito passa attraverso il settore bancario. Il mercato obbligazionario è molto piccolo se confrontato con la maggior parte delle economie moderne. Il mercato azionario, particolarmente incline a sviluppare bolle speculative, non è certo una fonte sicura di finanziamento per le sue aziende.

Tutto questo ha penalizzato il sistema finanziario cinese, dove il credito bancario rimane assoluto protagonista, una situazione che si è aggravata negli ultimi anni, quando la Cina ha dovuto proteggersi dalla crisi finanziaria e dalla Grande Recessione.

Memore dei pericoli legati alla crescita ad alta intensità di debito, Pechino sta cercando di svezzare i governi locali e le imprese pubbliche dalle loro recenti abbuffate di credito. Questo è una delle cause del rallentamento dell'economia reale. Nella misura in cui le autorità cinesi avranno successo in questo deleveraging – e recenti indicazioni su questo sono incoraggianti – la crescita del Pil nominale cinese, che rimane ancora rapida, potrà far scendere nei prossimi anni il rapporto Debito/Pil. In contrasto con molti timori espressi dalla stampa occidentale, la Cina non sarà la prossima Grecia o il prossimo Giappone.

Ad uno sguardo occidentale, molte delle cose appena segnalate sono indicatori di pericolo. Ma, a guardar meglio, si capisce come non colgano l'essenza della vera situazione economica cinese, che consiste in uno spostamento del focus del suo modello di sviluppo.

Per 30 anni, lo sviluppo cinese è stato trainato dalle esportazioni e dagli investimenti, una combinazione che ha permesso di moltiplicare per 30 il reddito pro capite e di portare la Cina al secondo posto tra le economie più ricche del mondo.

Ma questo ritmo di crescita non è sostenibile. Ha lasciato un'economia sbilanciata e instabile, per usare le profetiche parole dell'ex premier Wen Jabao del 2007. Il passaggio ad una economia basata sui servizi e trainata dai consumi interni è l'unica ricetta per uno sviluppo sostenibile, che la leadership cinese ha abbracciato con il 12° piano quinquennale adottato all'inizio del 2012 e una serie di importanti riforme attuate nel 2013.

Ogni cambiamento strutturale è un processo difficile. E la sfida cinese – trasformarsi da un'economia trainata dalle esportazioni manifatturiere e dagli investimenti in una economia dei servizi e dei consumi interni – potrebbe apparire addirittura scoraggiante.

Ma, come è accaduto durante lo straordinario sviluppo dalla fine degli anni '70, la Cina sta facendo progressi sorprendentemente veloce nel trasformare il proprio modello di crescita.

Tre fronti mostrano evidenze incoraggianti. Lo sviluppo del settore dei servizi è più avanti del previsto. I servizi hanno raggiunto il 43% del Pil nel 2014, eclissando manifattura e costruzioni che insieme hanno raggiunto il 43%. I servizi richiedono il 30% di lavoro in più per unità di prodotto rispetto agli altri settori non agricoli, e così anche una crescita più lenta porterebbe con se pochi rischi di aumento della disoccupazione e di instabilità sociale.

In secondo luogo, l'esplosione del commercio elettronico è diventato una grande scorciatoia per la crescita dei consumi cinesi. A differenza dei consumatori di un tempo, che avevano bisogno dei mattoni e della malta dei centri commerciali reali per poter esercitare le loro preferenze di acquisto, le nuove generazioni di consumatori cinesi si rivolgono a centri commerciali virtuali come Taobao e Tmall. Secondo Bain & Co., il commercio elettronico è cresciuto in Cina di oltre il 70% ogni anno dal 2007, e nel 2013 la Cina ha superato gli Stati Uniti come il più grande mercato digitale del mondo.

In terzo luogo, l'urbanizzazione sta procedendo a rotta di collo. Nel 2014 la popolazione urbanizzata ha raggiunto il 55% del totale dal 20% del 1980 ed è stato stimato dall'OCSE che possa raggiungere il 69% nel 2030. L'urbanizzazione è il collante che forma la base per l'emergere del nuovo consumatore cinese. Non solo fa crescere i salari reali – i lavoratori urbani guadagnano circa il triplo delle loro controparti nei settori manifatturiero e delle costruzioni – ma l'urbanizzazione è alla base anche di nuovi servizi, come il trasporto locale, le comunicazioni, le utility, oltre al commercio al dettaglio e all'ingrosso.

Fissandosi sulle così dette città fantasma, l'Occidente dimentica un altra pietra miliare dell'emergere della nuova Cina. Un quartiere di  Zhengzhou, descritto come fantasma nella serie televisiva 60 Minuti, ora è completamente occupato. In Cina, lo sviluppo urbano anticipa le migrazioni. E questo contrasta con lo squallore urbano dell'India dove lo sviluppo è in continua lotta per recuperare il ritardo rispetto alle migrazioni dalla campagna.

La lente con cui guardiamo noi stessi sopravvaluta i rischi della Cina e non riesce a vedere le componenti strategiche della sua nascente trasformazione strutturale. Mentre l'economia cinese continua a offrire un potenziale di crescita ineguagliata da qualsiasi altra nazione nel mondo.

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